LAVIS. Correva l’anno 1793. L’Europa era in fermento per quello che stava succedendo in Francia sulla scia del trinomio libertà, uguaglianza e fratellanza. Le monarchie europee vedevano con diffidenza la Rivoluzione francese e, nel luglio del 1793, alcuni studenti trentini, iscritti all’università di Innsbruck decisero di fondare un Club giacobino per rinnovare il sistema politico e sociale del loro tempo.
Scoperti dalla polizia nell’agosto 1794, a causa di un delatore, i fondatori del Club furono arrestati per poi essere rimessi in libertà, perché giovani giacobini trentini, infatti, non avevano concepito alcun piano a danno degli Asburgo.
Gian Pietro Baroni, uno dei padri fondatori, nel 1813 scrisse che fu «la libertà da pregiudizi politici e religiosi, la libertà di poter parlare di tutto senza timori né pericoli, l’associazione di mutuo soccorso, conseguenza del patto d’amicizia già istituito, tutto ciò aveva sortito in noi la decisione di fondare l’associazione».
Gli studenti trentini concepirono, inoltre, la nascita di una Repubblica italiana alla quale sarebbe stato annesso il Tirolo italiano. «Noi volevamo annettere – scrive Baroni – alla nostra Repubblica Italiana soltanto la parte meridionale del Tirolo perché adatta per la lingua e il carattere dei suoi abitanti e, data la sua posizione necessaria la conservazione e la sicurezza di quella».
Francesco Filos, di Mezzolombardo, pure lui padre fondatore del Club, nelle sue memorie scrisse che lo scopo «non era già di suscitare una rivoluzione, ma unicamente di diffondere i principi di libertà ed uguaglianza, e di unire con vincolo sociale quelli che questi principi professavano».
Alla base di tale società segreta c’era la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789. I membri di questo piccolo club avevano l’obbligo di diffondere l’uguaglianza, la libertà e l’amicizia, proprio come i massoni. Fondatore del circolo, infatti, fu un certo Giovanni Ferrari, ovviamente massone, che aveva ascoltato i discorsi del conte di Mirabeau all’Assemblea Nazionale e che partecipò alla presa della Bastiglia. L’organizzazione, inoltre, strinse relazioni importanti, non solo con Trento e Rovereto, ma anche con i club giacobini dell’Italia settentrionale.
I membri attivi di questa società segreta provenivano tutti da Trento, Rovereto, Mezzolombardo, Venezia e Lombardia. Molti di loro, come il Baroni e il Filos, negli anni 1796-1813, rivestiranno importanti incarichi amministrativi all’interno della macchina statale napoleonica.
Scoperto il club dalla polizia di Innsbruck nell’estate del 1794, il Ferrari, nel 1795, fu imprigionato a Kufstein con l’accusa di tentato alto tradimento. Morì a Graz qualche anno dopo.
Ma già nel 1792, sempre fra le valli del Tirolo, qualcosa stava cambiando. I venti rivoluzionari soffiavano in tutta Europa, e ovviamente i lavisani non rimasero a guardare.
Era una notte del febbraio 1792. Un manipolo di persone si aggirava per le vie di Lavis affiggendo manifesti che incitavano alla libertà e all’uguaglianza: «Viva viva la libertà – si leggeva – convien opprimere il protettor dei ladri di questa comunità»; «Vicario terror non fai, una lepre divorare un orso tu vedrai».
Da qualche mese le cose a Lavis non andavano per il verso giusto. Il governo tirolese era intervenuto per annullare, a causa di presunte irregolarità, la nomina del nuovo capo comune, Antonio Festner, personaggio alquanto discutibile, ammanicato con gli esponenti della nobiltà locale, ma in debito con il comune.
Al posto suo fu riconfermato il precedente capo comune, il regolano Pietro Andrea Dal Lago. Si andò a creare una contrapposizione politica, e i due, appoggiati dai propri sostenitori, si accusavano a vicenda di «ruberie e mangerie». Festner, inoltre, invitò i non vicini di Lavis (i forestieri residenti, esclusi dalla vita pubblica della comunità e soggetti alle prestazioni lavorative più gravose) a non pagare più le imposte comunali.
I manifesti di febbraio non piacquero alla classe dirigente dell’epoca. Il governo provinciale inviò il barone Sigismondo Moll, Commissario di Rovereto, per rimettere le cose in ordine. Scortato da un manipolo di soldati, giunto in quel di Lavis, studiò la situazione politica, economia e sociale.
Già ai primi interrogatori emerse che il partito guidato da Festner era anche definito «Club dei giacobini»: fra i membri di questo gruppo troviamo anche Carlo Viero e il padre di Tommaso Bortolotti, Andrea Bortolotti. Ben presto furono individuati e arrestati anche gli autori dei manifesti: Benedetto Garbina, Antonio Gasperinati e Pietro Marchiori.
Il loro obiettivo era di abolire la distinzione giuridica fra vicini e non vicini. I primi erano i residenti proprietari di casa e terreni e che partecipavano in modo attivo alla vita pubblica della comunità. I secondi, privi di tale diritto, erano i forestieri residenti da lunga data, soggetti al lavoro coatto al servizio della comunità e per conto dei vicini.
Nel corso dei processi, inoltre, la categoria dei non vicini inviò al barone Moll una serie di suppliche al fine di migliorare la propria condizione. Lo stesso commissario notò che a Lavis 115 famiglie avevano il diritto di vicinanza, circa 300 persone; il numero dei non vicini ammontava a 418 famiglie, 1.367 persone: tre famiglie su due erano considerate forestiere e quindi prive di diritti.
Il Moll riscrisse il regolamento comunale andando incontro alle richieste dei non vicini, come per esempio affidare la contabilità comunale agli ufficiali imperiali del dazio e la nomina di quattro rappresentanti dei non vicini nei congressi comunali.
Lo storico Helmut Reinalter, in Massoni e giacobini a Innsbruck e a Trento, scrisse che i sostenitori della Rivoluzione francese a Trento «cercarono di ottenere l’adesione della popolazione alle idee di sovvertimento dello Stato. Fra il 1792 e il 1796 si ebbero insurrezioni a Lavis, Riva, Cembra e Rovereto in stretta connessione con la Rivoluzione francese».
Le cause principali del malessere, di una parte di popolazione portata al limite della sopportazione, furono le ingenti spese per la costruzione della chiesa e degli argini dell’Avisio. Già nel 1749, Pietro Comoro, avvocato di Rovereto, notò che a Lavis i non vicini, i più poveri, si aggravavano «dell’ingiusta inquartierazione dei soldati, con la totale esenzione dei vicini: i più ricchi».
Sono costretti a vendere a basso prezzo il proprio vino che i vicini rivendono a proprio vantaggio. «Questi mali – conclude – sono causati dalla mala amministrazione di chi maneggia il pubblico denaro».
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