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Ogni fine ottobre, quando noi di Lavis andavamo a raccogliere le castagne

LAVIS. Negli ultimissimi giorni di ottobre, l’appuntamento principale per tutti noi ragazzini era quello di “andar per castagne”. Questa è un’operazione che oggi è senz’altro snobbata e dimenticata dai più. Ma ci sono ancora i sognatori, i nostalgici di turno, quelli che rivangano puntualmente i ricordi di un tempo ormai passato.

Posti scelti

Allora, nei primissimi anni ’50, si andava per castagne sempre in lieta compagnia e anche a frotte di ragazzini. Ci si metteva d’accordo già sui banchi di scuola: ognuno portava le sue idee, le proposte dell’ultima ora, il passaparola faceva poi il resto.

Le destinazioni e le zone erano sempre le stesse dall’immediato Dopoguerra in poi. Si ispezionavano palmo a palmo tutti i boschi della zona del Paierla, quelli vicini ai Masi dei Devigili. Poi quelli vicino al Maso Rumega dei Lorenzi, immediatamente sopra gli ultimi Masi di Pressano.

Dal lato opposto, si cercavano le castagne nei pressi di Vigo Meano, nei boschi dei Bortolotti, poi nella zona della Villa Mazzurana intorno a Camparta. A Lavis l’unico posto dove le castagne erano commestibili era quello ai piedi del Doss Paion (la zona dei famosi castagnari), proprio di fronte alla Fratta del Sigismondo Stenech (chiamato simpaticamente Mondi), all’inizio della strada provinciale per la Valle di Cembra.

Caldarroste e mondoi

Le castagne, allora, erano ambite e ricercate dai più, anche perché in quei tempi erano una delle fonti principali per il sostentamento e l’alimentazione della gente di campagna (e non solo). Alla scuola elementare i vari maestri ci avevano ribadito più volte l’importanza della castagna. Allora era soprannominata “il cereale che cresce sull’albero”, paragonabile al frumento e al riso dal punto di vista nutrizionale.

Sempre i maestri ci ricordavano anche i benefici “incredibili” delle castagne di allora. A loro dire, «combattevano l’ansia, lo stress e l’anemia». In casa, poi, le castagne si iniziavano a preparare intorno alla Festa di Ognissanti del primo novembre. Quasi sempre si cuocevano sulla fiamma nella padella di ferro con gli appositi buchi. Si facevano così le famigliari e poetiche “caldarroste” di atavica memoria.

Per i palati più esigenti però c’erano anche le castagne “lesse”. Venivano bollite in acqua e sale, liberate poi dall’intera buccia e quindi servite Erano le classiche “ballotte”, qui da noi chiamate anche nel dialetto trentino “i mondoi”.

Le castagne erano anche viste ed utilizzate comunitariamente come premio annuale di ogni attività: sociale, religiosa o sportiva. Per tutti si organizzavano le famose “castagnate” alla fine di ogni assemblea o di ogni anno sociale che si rispetti.

Ogni primo novembre

Quando eravamo chierichetti, in quegli indimenticati anni ’50, si attendeva con ansia la castagnata generale che concludeva in modo simpatico e famigliare la Festa dei Santi, puntualmente ogni primo novembre di ogni anno. Dopo le funzioni in chiesa, la processione al Cimitero del primo pomeriggio e la funzione per i defunti con la benedizione delle tombe, l’appuntamento era in Canonica nella sala d’aspetto davanti alla cucina e all’ufficio dell’arciprete-decano.

Gli invitati erano praticamente tutti gli addetti ai lavori. Oltre a tutti i chierichetti, c’erano i cantori (rigorosamente solo maschi) del Coro Parrocchiale, i campanari, il sacrestano e poi naturalmente l’arciprete, i due cappellani e il padre francescano o cappuccino che veniva a confessare nelle occasioni importanti.

Le castagne venivano quasi sempre cotte nel forno del focolare a legna della canonica, in diversi turni, data la quantità del prodotto. Noi chierichetti avevamo collaborato con la Lina e la Catina (le due perpetue nipoti dell’arciprete) a tagliare le castagne sul dorso.

Scoppi in Canonica

Stavamo attenti e seguivamo ogni fase della cottura, attendendo gli scoppi. Questo succedeva perché si lasciava a bella posta qualche castagna integra, da tagliare, appunto per poi sentirla “scoppiare” improvvisamente nel forno di cottura …

Seguivano immediatamente le indagini interne da parte delle due cuoche di canonica. Rimanevano esasperate ed impaurite dopo ogni “scoppio”, e cercavano di individuare sul momento i veri responsabili di quei “vili attentati” alle castagne. «Se trovo chi è stato – dicevano la Lina e anche la Catina all’unisono – quello rimarrà senza castagne per sempre». E noi, a testa bassa, facevamo finta di non sentire e facevamo a finta che la cosa non ci interessasse affatto.

Vino e gazzosa

Quando però le castagne erano pronte, venivano portate nelle grosse scodelle coperte da un tovagliolo. Erano quindi distribuite sul grande tavolo dell’atrio e alla portata di tutti i presenti. Non mancava il contorno del vino buono, sia vecchio sia nuovo, (il novello allora era ancora da lanciare e da propagandare). Era portato appositamente dal cantiniere di fiducia dell’arciprete, l’Emilio (Milio) Sartori sempre disponibile. Si trattava perlopiù di una schiava-lagrain, quella della collina di via Pressano, leggera e amabile, servita sia calda sia fredda a seconda dei gusti dei commensali.

Era però destinata solamente per i più “grandi”, lavoratori e cantori. Ma anche i cappellani non erano certo da meno e non si tiravano sicuramente indietro sulla quantità… Per noi chierichetti, invece, arrivavano le famose “gazzose” con la pallina, nelle bottigliette di vetro e nelle cassette di legno, prelevate direttamente dallo “spaccio” del cinema-teatro dell’Oratorio.

La leggenda delle castagne

Ma anche nelle case il menù non cambiava. Dalla nonna Luigia (Gigia) si arrivava a cena col minestrone di verdure con pasta grossa. Come secondo c’erano le castagne caldarroste cotte nel forno del focolare a legna. Invece dalla nonna Emma (quella sul Pristòl) c’era per cena la minestra d’orzo (il famoso orzet), magari con dentro, cotti assieme, qualche cotica (scodega) o qualche piedino (peot) di maiale della premiata macelleria dei Troier. Come secondo c’erano invece le castagne e questa volta, tanto per cambiare, erano lesse e cotte nell’acqua calda, i buonissimi “mondoi” di indimenticata memoria.

In quelle serate autunnali dedicate alle castagne, non mancava – da parte dei nonni – la solita leggenda, raccontata innumerevoli volte a noi ragazzini di allora:

«Gli abitanti di un paesino di montagna erano talmente poveri che non avevano nulla da mangiare. Ogni giorno pregavano il Signore affinché desse loro qualcosa con cui cibarsi. Iddio ebbe compassione di loro e così regalò a quegli abitanti un albero maestoso, il castagno, dal quale poter raccogliere poi i frutti commestibili e nutrienti. Naturalmente il diavolo seppe subito la cosa e per dispetto racchiuse i frutti in un riccio spinoso per impedire così la loro raccolta.

Gli abitanti del paesino si rivolsero allora nuovamente a Dio, chiedendo il suo aiuto. Il Signore scese dal cielo e guardando il castagno (castagnar), fece il segno della croce. Come d’incanto i gusci spinosi si aprirono, facendo cadere le castagne a terra. Da quel giorno ogni anno in autunno, i frutti del castagno si aprono a croce e cadono giù, pronti per essere raccolti e poi gustati da tutti quanti»

Le castagne di una volta

Castagne quindi e ancora e sempre castagne, in tutti i modi e in tutte le salse (anche in marmellata). Anche perché allora non costavano proprio niente, dato che si potevano trovare persino sull’uscio di casa. Mentre chi se le raccoglieva in proprio, poteva poi gustarsele “a gratis” e in santa pace.

Oggi, invece, per gli appassionati delle castagne l’impresa diventa sempre più difficile, ardua e costosa, se si vuole acquistarle in negozio, nostrane di marca e di buona qualità, sufficienti per un intera famiglia, bisogna fare un… mutuo per il loro costo alle stelle!

Comunque non ci sono più le castagne di una volta e quelle di casa nei nostri boschi di famiglia non si trovano più. Forse ci sarebbero ancora i raccoglitori incalliti come una volta, ma mancano addirittura le castagne e anche di “castagnari”, ormai non se ne vedono proprio tanti!

Giovanni Rossi

Giornalista, scrive per "Vita Trentina". Per decenni è stato il corrispondente da Lavis per "L'Adige". Memoria storica e appassionato di cinema, ha lavorato come tuttofare per il Comune di Lavis fino alla pensione. Scrive per "Il Mulo" dopo essere stato una delle colonne del giornale digitale "La Rotaliana".

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