MEZZOLOMBARDO. Si è svolta nei giorni scorsi la sfilata di San Nicolò, antica tradizione che alla vigilia del 6 dicembre riempie le strade di Mezzolombardo di ragazzi e soprattutto di intere famiglie e bambini. Una festa che è molto cambiata rispetto alla originaria consuetudine che qui cerchiamo di raccontare per fare memoria di un segmento di storia di paese, che un po’ alla volta si è snaturata, a causa, forse, dell’invadente modernizzazione e globalizzazione.
Partiamo dal passato prossimo degli anni ’50, ricorrendo ai ricordi del tempo di un abitante di Mezzolombardo poi emigrato per lavoro in Friuli e che ricorda con struggente nostalgia lo svolgimento della festa: ecco il suo racconto.
Dopo l’autunno terminata la vendemmia e fatta qualche castagnata, si attendevano con impazienza le feste natalizie, che erano San Nicolò, Santa Lucia, il Natale con Gesù Bambino e l’Epifania, ma ovviamente la più attesa era il Natale con Gesù Bambino che portava i doni.
San Nicolò però, aveva un fascino suo particolare dato non tanto per i doni, costituiti da qualche caramella, due mandarini, una carobola o una mela, ma per la festa che si svolgeva la sera del giorno prima il 6 dicembre. La sera appena fatto buio, i ragazzi (solo ragazzi!), trascinavano per le vie del paese delle lunghe colonne, delle catene fatte di numerosi secchi, contenitori, barattoli di latta (i bandoni) legati fra loro con del filo di ferro fino a formare un lungo serpentone.
Questa lunga teoria di rumorosi recipienti (la strozega) era trascinata da due, tre, quattro ragazzi lungo le principali strade del paese, stringendo fra le mani dei bastoni legati al filo di ferro, mentre altri percuotevano i bandoni con altri bastoni, provocando più rumore e chiasso possibile.
Il tutto era illuminato da torce di legno infuocate e, i più scatenati, attaccavano ai bandoni anche dei copertoni di auto o bici, ai quali davano fuoco facendo un fumo nero asfissiante!
Il corteo procedeva al passo, intercalato da piccole corse per fare più rumore, specialmente sulle strade di ghiaia, pietrame, sul salegià, che a quei tempi era la maggior parte del manto stradale. Lo scopo era quello di fare rumore per attirare l’attenzione del santo, per lanciare il messaggio “guarda che in questo paese ci sono tanti bambini, non ti dimenticare di noi”.
Si faceva la gara a chi aveva la catena più lunga, che poteva raggiungere anche i 20 o 30 metri. Per realizzare questo obiettivo, i più previdenti iniziavano la raccolta dei grandi barattoli di olio, sottaceti, pelati, marmellata, tonno, sgombro, biscotti, colore per pitture, con notevole anticipo.
L’impresa era ardua perché questi barattoli venivano utilizzati per tanti scopi: per la raccolta dell’acqua, come vasi di fiori, per la raccolta di ortaggi e granaglie, per dar da mangiare ai maiali, ai cani, ai gatti, conigli. Pertanto ci si doveva accontentare di quelli rotti e inutilizzabili; durante il corteo spesse volte il filo di ferro si rompeva e specialmente sul finire della serata quando a forza di strappi e strattoni il filo si spezzava di frequente, non ci si fermava più a fare la riparazione e si abbandonavano per strada gli spezzoni delle colonne di barattoli.
Tutto questo era possibile perché il traffico stradale era limitato e soprattutto lento e le automobili poche, e quindi non si recava grande disagio al traffico e non c’erano pericoli particolari.
L’amministrazione comunale rispettava la tradizione e tollerava gli intralci e il giorno dopo gli operai comunali ripulivano le strade di quello che era rimasto in giro. Prima di loro però, la sera stessa finite le corse, molte volte alcuni dei ragazzi più intraprendenti si lanciavano in una sommaria raccolta dei resti che portavano al rigattiere (el strazar) che li remunerava con poche lire con le quali si comperavano le ciunghe (chewing gum).
Il rito di San Nicolò si completava, una volta ritornati stanchi a casa con le vesciche sulle mani, sporchi di terra e di fumo, con l’offerta di un piatto di crusca, che veniva posto sul davanzale di casa per sfamare il frugale asinello del santo. Poi di corsa a cercare di dormire senza fiatare, anche se l’attesa e l’eccitazione erano grandi, perché altrimenti il santo e l’asinello avrebbero evitato di lasciare il dono che, si sapeva già, sarebbe stato molto modesto; la mattina si correva alla finestra: il piatto era vuoto e al suo posto c’era un’arancia, una mela, un cioccolatino e poco altro.
Un altro racconto, che arriva indietro sino ai primi decenni dello scorso secolo, è quello di un’anziana del paese che conferma che solo i ragazzi partecipavano alla strozega e che oltre alle torce si usavano, di nascosto dei genitori, le lanterne che in casa servivano per lavoro in campagna quando la notte si andava a condurre acqua nei campi (endacquar), e che oltre ai campanelli di casa che si suonavano e talvolta venivano ricambiati da qualche abitante con un secchio d’acqua in testa, qualche ragazzo si portava appresso i campanacci delle vacche della stalla, tutto per fare maggior chiasso possibile.
Il rumore, il caos è l’aspetto più peculiare di questa festa che gli antropologi spiegano come la sopravvivenza di culti e usanze precristiane legate al solstizio di inverno (che quest’anno cade il 22 dicembre) e che la Chiesa cercò di moderare e infine di espungere dalle feste natalizie in una lotta conclusa solo nel secolo XV con la sacralizzazione del rito dello scacciare il male in eterna lotta con il bene.
Nel medioevo un’usanza che coinvolgeva la figura del Santo come Vescovo, induce a qualche riflessione: il 6 dicembre infatti i seminaristi usavano eleggere fra di loro un vescovello (episcopellus) e i suoi cappellani che sarebbero stati protagonisti alla festa dei Santi Innocenti che cade il 28 dicembre; in quella data in una cerimonia parodistica il vescovo dei fanciulli o degli innocenti indossava i paramenti sacri e impartiva la benedizione come un vero vescovo e i chierici si scatenavano in lazzi e parodie in una giostra carnevalesca con cori di canzoni oscene e gettando nel turibolo1 cuoio per ammorbare l’aria
Questa era la trasposizione in termini cristiani anche se parodistici, della tradizione precristiana della Roma imperiale quando si festeggiava il dio Saturno che regnava prima del giorno di capodanno romano, fra banchetti e giochi d’azzardo e durante il cui periodo, che andava tra 17 e 23 dicembre, i ruoli sociali si invertivano e gli schiavi potevano burlarsi dei padroni e farsi servire a tavola.
Una eco di questa tradizione antica dell’episcopus puerorum, ricorre anche nella nostra regione in un decreto del 7 settembre 1442 che Giorgio, vescovo di Bressanone, emette per disporre il divieto di questa pratica del vescovuccio da burla che ritiene antica e di recente ripristinata! Pare fosse una costumanza diffusa nei secoli XI e XII in buona parte dell’Europa soprattutto nei paesi dove era presente il rito gallicano e tradizioni franco-longobarde. Così qualcuno spiega il detto “San Nicolò da Bari la festa dei scolari” e la costumanza di regalare in quel giorno ai ragazzi frutta o dolci.
Il dono, ecco l’altro aggancio con la figura del santo del quale sarebbe opportuno dire qualche dato per così dire biografico. Lo faremo in un’altra puntata. (b.k.)
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