LAVIS. Senza scomodare Heminghway e il suo romanzo (divenuto anche un film di successo), “Per chi suona la campana”, passiamo ora in rassegna le varie campane lavisane distribuite sui campanili locali e sul territorio. E sentiamole tutte quindi nel loro plenum concertistico: «Campane, col suono giocondo invocate la pace e l’amor, non quella che predica il mondo, ma la pace che vuole ogni cuor…». Lo cantava Luciano Tajoli nei nostalgici anni ’50, una canzone indimenticabile. Ma il messaggio è rimasto sempre attuale e fedele anche oggi per la nostra borgata in riva all’Avisio.
Sono ben cinque le campane posizionate sui due piani del seicentesco campanile della chiesa arcipretale di Sant’Udalrico, inaugurata ufficialmente nel 1777. C’è la “piccola” che è detta anche dell’agonia, perché suona per annunciare la dipartita delle persone che lasciano questo mondo. Ci sono poi le tre “medie” che finirono requisite come bottino della prima guerra mondiale. Poi furono restituite, ma solo dopo che le originali erano state fuse a Bologna, nel 1923 a guerra conclusa. C’è anche la campana “grande”, quella storica che era stata preservata dal saccheggio della prima guerra mondiale, anche per la sua vetustà e le sue condizioni non proprio perfette.
Tutte e cinque le “sorelle” sul campanile, hanno l’intonazione d’ordinanza. E cioè – come dicono gli esperti del settore – in “fa diesis”, in “sol diesis”, poi in “si” e anche in “mi”. Tutto per la delizia degli intenditori musicologi e perfezionisti del settore musicale, naturalmente in questo caso tralasciando la più piccola.
Altre tre campane poi, naturalmente di piccola foggia e taglia ma dal suono gioioso e armonioso insieme, sono dislocate nelle tre chiesette lavisane, disseminate nel centro e nella periferia del paese. Parliamo della chiesetta di San Giovanni Nepomuceno del Municipio, chiamata anche dai lavisani di un tempo “chiesetta di Nostra Signora”. Poi quella della Madonna Nera di Loreto vicino al ponte sull’Avisio. Infine quella sul piccolo campanile della chiesetta di Santa Teresa in via Carmine-via Paganella, a fianco della Cantina La Vis.
Anche nel nostro paese, quindi, la vita è sempre stata scandita costantemente dal sottofondo amico, festoso e a volte mesto, delle campane o campanelle che siano. Sul loro suono si sono sempre regolate e si regolano tutt’ora tutte le funzioni religiose e civili dell’intera comunità. I richiami alla preghiera, innanzitutto. Ma anche i solleciti e gli inviti ad ogni impegno che caratterizzano, sin dalla prima nascita del borgo lavisano, l’intero ciclo della grossa comunità, nata e cresciuta intorno alle umide e corazzate rocce di monte Pristòl.
Quindi, tornando alle nostre campane, la più grande e la più antica ha suonato e sta suonando ancora da ben quattro secoli e per tutte le generazioni dei lavisani, quelli che hanno transitato nella vita e anche per quelli che stanno tutt’ora vivendo. Storicamente, si legge in un interessante e antico documento dell’archivio parrocchiale, il tutto ebbe origine esattamente nel gennaio del 1600 quando si lavorava già intorno al primo campanile di Sant’Udalrico. Furono i maggiorenti locali insieme al clero di allora, che decisero di far costruire (si legge proprio così):
«una campana granda dal pretio et valore de Ragnesi 800 circa, et ancora far poi rinnovar le altre due».
La campana “granda” esiste ancora nonostante le traversie passate e subite. Tutt’ intorno porta due incisioni con le figure del Redentore, insieme ai Santi Pietro, Paolo, Giacomo e Giovanni. C’è poi la bella scritta in latino che recita: “Diu sonet vox tua in auribus nostris – aere vicinorum terrae Avisii MDCIII”. Praticamente significa: “A lungo risuoni la tua voce ai nostri orecchi – fusa poi con le offerte dei vicini del paese di Lavis nel 1603”.
Nel corso dei grossi lavori alla chiesa arcipretale dopo gli anni 2000, tutte e cinque le campane sono state dichiarate “di interesse culturale”. Sono così passate sotto tutela della Sovrintendenza Provinciale ai beni storico-artistici, quindi restaurate e pulite per poter ritornare al loro antico splendore di prima.
E intorno alle campane lavisane ci sono state anche le cronache storiche del passato, ancora indimenticabili e suggestive nella loro tradizione paesana. Di quando la vita quotidiana locale veniva praticamente regolata, annualmente, sin dal levar del sole e fino al calar della notte, dalle campane sul campanile. C’era la campana “mattutina”, quella della sveglia al popolo, che “stì ani” era sempre alle cinque (la prima Messa era infatti alle 5.30). A mezzogiorno, anche se i contadini di allora pranzavano alle 11, c’era sempre la scampanata di mezzodì, mentre alla sera, intorno alle 20 come oggi, c’era la cosiddetta campana dell’Ave Maria serale.
Diverso e sensibile al punto giusto era il linguaggio delle campane. Suonavano a festa per le grandi celebrazioni. C’era il campanò per le ricorrenze storiche e le grandi festività locali (ritornato di moda anche oggi grazie ad un agguerrito gruppo di baldi giovani appassionati). C’era appunto la cosiddetta campanella della “agonia” che segnalava la partenza di qualcuno da questo mondo. C’era poi anche la famosa e a volte lugubre “campana a martello”, per avvisare il popolo di un pericolo imminente, le brinate sulle campagne, le piene dell’Avisio e magari un incendio in corso.
Qualcuno ricorderà sicuramente ancora in tempo dell’ultima guerra, quando la sirena di allarme non funzionava per mancanza di elettricità, si ricorreva sempre al campanile (in quei tempi sempre aperto) e si suonava la campana a martello in vista degli imminenti bombardamenti in arrivo, sul paese e sul ponte dei Vodi.
I rintocchi di tutte le campane lavisane erano sempre guidati e gestiti dai vari “campanari” di ogni epoca. Erano tutti volontari e impegnati al punto giusto. Hanno salito per una vita intera le anguste scalette del campanile per poi arrivare nella loro famosa “sala delle corde”. I più conosciuti dal dopoguerra in poi erano, dopo il regista e naturalmente il sacrestano titolare Udalrico Vindimian (el Rico monech), con i fedelissimi aiutanti: Francesco (detto Cianci), Massimo (Pizzegot), Carlo (Babicio) e anche il Romolo detto “Leone”.
Tutti rimasero in servizio perenne e continuativo fino al limite della loro vecchiaia. Persero praticamente il lavoro solo con l’arrivo, negli anni ’60, dell’elettrificazione delle campane ad opera della Ditta Fagan di Vicenza chiamata dall’allora arciprete-decano don Luigi Zadra. Ultimo sacrestano con ancora le campane a fune è stato il popolare e conosciutissimo Federico Brugnara. Anche lui si destreggiava tra sacrestia e campanile per organizzare i vari “concerti” e le grandi scampanate di festa per le celebrazioni più in auge.
E ricordiamo a questo punto e con nostalgica trepidazione da fanciulli, proprio il 4 maggio del 1945, quando appena passato il mezzogiorno, sullo stradone della Nazionale del Brennero, arrivarono i primi carri armati alleati tra due ali di folla festante. Si fermarono praticamente dove oggi c’è la rotatoria e quasi davanti all’Albergo-Bar Paganella gestito sin da allora dall’Emanuele e dalla Maria Lona. Scambi di doni con gli occupanti dei carri armati, cioccolate americane e sigarette. Dai lavisani arrivarono i bottiglioni di vino (che ebbero un enorme successo tra tutti i militari liberatori), poi tanta frutta con mele e pere comprese per tutti.
Finalmente anche Lavis si era liberata dalla guerra e anche le campane, quel giorno, fecero la loro bella immancabile figura. Si erano sciolte tutte quante insieme, come in un grandioso concertone. Un grande abbraccio che risuonò in tutta la zona e anche lungo l’Avisio, fatto di pace e di speranza insieme. Ed era come dire:
«Campane che suonate ogni sera… campane come dolce preghiera, quel suono di ringraziamento e di pace, finalmente arrivata anche qui a Lavis!».
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