Storie di animali sulla terra tiepida. Quando bastava la fantasia per volare via dalla campagna di casa

Il selciato del vialetto era caldo sotto il sole, ma si allargava in macchie di improvvisa frescura dove l’ombra dei cipressi frastagliava la luce; la sensazione dei piedi nudi sulla terra tiepida era l’estate, quando vedevi piccole crepe dipanarsi felici nella polvere sospesa.

In certi giorni il nonno arrivava dalla campagna, leggermente chino in avanti, a passi lenti e forti, le mani dietro la schiena a nascondere qualcosa. Domandava se ne volevamo, porgendoci i pugni chiusi in un eterno gioco di sorprese: sotto i nostri nasi schiudeva le dita su alcune fragole rosse, more succose, lamponi morbidi e vellutati. Quasi sempre erano i primi che noi bambini mangiavamo quell’anno e quel rito innocente e semplice ci faceva annusare la possibilità di cose preziose: ci dimenticavamo che quella era la normalità di ogni estate e tutto diventava eccezione, aveva sapore di vacanza.


L’oca che credeva nei miracoli


1.Nel vigneto l’aria era tiepida e un’oca passeggiava lenta, immersa in pensieri di palmipede: al minimo rumore rizzava il collo turbata, fuggiva, da cosa non si sa, verso dove nemmeno, con un leggero brontolio offeso; pur con piume e zampe sporche di fango, il suo portamento era regale e fiero. Si addormentava all’improvviso, in bilico su un unico trampolo, la testa affondata nel folto delle penne, in una posizione apparentemente molto scomoda. Noi bambini facevamo larghi giri attorno a quello strano oggetto palpitante e immobile, in silenzio e a passi dolci, per non svegliarla.

L’oca era innamorata del nonno e quando lui partì anche lei divenne più scontrosa e solitaria, come tutti gli altri abitanti della casa, con un motivo in meno per apprezzare la compagnia o forse con qualcosa in più a cui pensare; ti fissava con la testa inclinata e occhietti azzurri diffidenti, poi si allontanava ancheggiando lenta.

In primavera radunava le uova per scaldarle sotto il suo immenso fondoschiena, ignorando il proprio stato civile: con sforzi commoventi nascondeva le candide uova dai pericoli, soprattutto dalle nostre grinfie, e allestiva un nido con paglia, erba, legno e frammenti di vetro e coccio. Forse un qualche etologo avrebbe avuto la spiegazione, ma per tutti era un mistero questo suo ammassare oggetti contundenti attorno alla bianca innocenza che si impegnava a custodire.

Chissà quale emozione aveva nel cuore quando apriva gli occhi per l’impressione di un movimento là sotto, o per il timore di avere per sbaglio incrinato la speranza di non essere più sola… aspettava con pazienza per lunghi giorni immobili che da un uovo addormentato nascesse qualcosa: era solo una stupida oca che credeva nei miracoli o, forse, un animale molto saggio che sapeva vivere della sua illusione.


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Storie di campagna


2.Io, mio fratello e mia cugina Fiore passavamo le giornate immersi in queste avventure di animali bizzarri e ogni creatura del passato e del presente sfilava davanti ai nostri occhi in episodi più o meno leggendari. Molti cani si erano succeduti nel tempo, sin dagli anni più giovani delle zie, che provvedevano a metterci al corrente di tutto. Ma non c’erano soltanto i cani a riempire le nostre fantasie: in tal senso, Fiore era una vera maestra e in quella sua piccola testolina di pirata sdentato nascevano storie vere o quasi, su cui rimuginava all’infinito, scavando nei particolari che più l’avevano colpita.

Era rimasta molto impressionata da un fatto che qualcuno le aveva raccontato: una bambina, vestita di giallo nella sua versione preferita, andava a spasso con la madre sulla bicicletta, ma, a causa di una brusca frenata, era stata catapultata in aria; dove fosse finita non si sa, restava un mistero. Mia cugina si faceva ripetere all’infinito questa storia e poi restava incantata a pensare a quella mamma tanto sbadata da perdersi così la figlioletta; si chiedeva poi perplessa dove mai potesse essere atterrato quel proiettile pieno di grazia.

Volare fra le ortiche


3.Forse ciò che più preoccupava Fiore era l’idea dell’atterraggio, d’altronde lei stessa era solita avere incontri estremamente ravvicinati con Madre Terra, che sempre si risolvevano con poche lacrime sue e molte urla del pubblico più adulto. Come quel giorno in cui, volteggiando con grazia militaresca su un’altalena, si era lanciata in mezzo a un campo di ortiche. Il dramma si era consumato in pochi istanti e quelle erbacce, ottime per la frittata dice sempre mia zia pur non avendo mai provato a cucinarci niente, avevano restituito una piccola extraterrestre ricoperta di bolle rosse che lanciava acuti strilli verso il cielo.

Questi piccoli incidenti erano quasi all’ordine del giorno, vista la disponibilità di strumenti e di fantasia che avevamo: persino il nonno, nella sua calma solida di vecchio albero, porgeva verso i nostri nasi alzati rami colmi di idee e storie meravigliose. C’era quella dei due sposi in viaggio di nozze che non si incontravano mai perché scendevano e salivano dal treno alle stazioni sbagliate soltanto per fare la pipì; oppure quella della bambina e della nonna, in una casa con sette porte, e dei ladri che tentavano in tutti i modi di entrare, senza riuscirci.


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Pluto e Rocky


4.Queste storie “quasi inventate” si alternavano con quelle verissime sui cani del passato, la lupa defunta per aver mangiato una fetta di salame imbevuta di veleno per topi, il bestione pelosissimo che faceva il bagno nei canali per l’irrigazione assieme alle zie, inondando tutti quando si scrollava l’acqua di dosso. Come dimenticare Pluto e Rocky, cani con particolari attitudini gastronomiche, visto che uno amava cibarsi dei mozziconi di sigaretta e l’altro aveva posseduto lo stomaco più capiente di tutta la storia canina. Qui la zia sgranava gli occhi e ci giurava che, una volta, si era ingurgitato una torta fatta con ben dodici uova e un sacco grande così di pane secco, salvo poi restare fermo per un paio di giorni come il serpente che ha ingoiato l’elefante.

Di nuovo interveniva il nonno, con la storia triste di un bel pastore tedesco che salvava il suo padrone dall’assideramento segnalando il cammino ai soccorritori con una scia del suo sangue, morendo poi stremato e lasciandoci ogni volta un po’ orgogliosi e un po’ dispiaciuti.

Inevitabilmente, quindi, tornavano ad essere ancora i cani, ancora animali più umani degli uomini, a riempire le nostre orecchie e i nostri occhi; anche quelli di Fiore, che ogni tanto si rivolgevano al cielo aspettandosi di vedere da un momento all’altro un guizzo giallo che sfrecciava tra le nuvole bianche.

Consulente nel campo della formazione e del counselling, lavora con aziende e singoli, trattando temi come la comunicazione e l’orientamento professionale, l’accompagnamento al cambiamento. Tra l’amore per le parole e la convinzione che “siamo tutti fatti di storie”, studia e sperimenta tecniche e modi per raccontare la realtà ed è attualmente iscritta alla Scuola di Scrittura di Ivano Porpora.