LAVIS. «Avete rubato i miei sogni e la mia infanzia con le vostre vuote parole». Questa è forse l’affermazione più incisiva che l’attivista Greta Thumberg ha pronunciato nel suo duro discorso al vertice ONU sul Clima lo scorso 23 settembre 2019. A questo vorrei aggiunge che sembra far più scalpore nella nostra società iperconnessa una ragazza di 16 anni motivata più da una professione di fede che da un bagaglio di comprovate competenze scientifiche.
In quella calda estate del 2019 molti di noi si sono chiesti se veramente tutto stesse procedendo nella normalità. In molti avranno riflettuto sulla veridicità dei mutamenti in atto e sul ruolo della società moderna nei confronti delle dinamiche climatiche del nostro pianeta tanto da far pensare che in gioco ci sia la sicurezza e il futuro sviluppo di intere popolazioni del pianeta.
A debita distanza temporale dagli eventi climatici verificatesi nella scorsa estate ho ritenuto utile riassumere alcune implicazioni e cause di un riscaldamento globale che appare a tutta la comunità scientifica sempre più evidente ma che la nostra quotidianità tende invece a considerare con superficialità definendo i processi climatici in atto “eventi eccezionali”.
Nel mese di agosto 2019 i satelliti trasmettevano immagini di estese regioni della Siberia interessate da incendi devastanti. In Amazzonia nella stagione secca si sviluppano incendi provocati da agricoltori che usano il fuoco per aprire nuovi pascoli e aree coltivabili. Le nubi di fumo raggiungono le città della costa.
In Australia da ottobre 2019 a gennaio 2020 sono bruciati più di 10 milioni di ettari di territorio (una superficie equiparabile all’estensione del Portogallo), sono state distrutte più di mille abitazioni e vengono stimati quasi un miliardo di animali selvatici morti (figg. 1 e 2).
In Amazzonia la pratica in atto è quella di tagliare gli alberi di grandi dimensioni e bruciare le ramaglie per fare posto a coltivazioni di soia e a pascoli per gli animali.
La vegetazione lussureggiante dell’Amazzonia e la rete di fiumi che la attraversano sono in serio pericolo a causa di incendi e deforestazione, inoltre la continua perdita di vegetazione potrebbe avere un effetto cumulativo non solo nel contribuire ai cambiamenti climatici ma anche nell’influenzare i modelli di precipitazione in tutto il mondo, minacciando la produzione alimentare e destabilizzando gli ecosistemi naturali.
Uno studio pubblicato nel 2014 sulla rivista Nature Climate Change riporta che la completa deforestazione amazzonica ridurrebbe le precipitazioni nel Midwest degli Stati Uniti, nel nord ovest ed in alcune parti del sud durante la stagione agricola. Allo stesso modo la deforestazione in Africa centrale avrebbe lo stesso effetto su diverse aree degli Stati Uniti. Questi mutamenti sembrerebbero legati alle variazioni negative di umidità al suolo che in condizioni di assenza di vegetazione favorirebbe la risalita di aria calda nell’atmosfera superiore, creando turbolenze in grado di alterare il clima anche in regioni molto lontane.
Il Word Wildlife Fund stima che il 17% dell’Amazzonia brasiliana sia già stata disboscata. Uno studio del 2018 sulla rivista Science Advances riporta che il punto di non ritorno, raggiungibile in Brasile con una deforestazione compresa tra il 20%-25% della superficie amazzonica, determinerebbe lo sviluppo di condizioni climatiche più secche tipiche della zona a savana.
Nel report “Climate Change and Land” dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) pubblicato l’8 agosto 2019 viene illustrato il contributo dell’agricoltura in riferimento all’emissione di gas serra responsabili del cambiamento climatico. Si evidenzia in particolare un incremento di 13 Milioni di ettari all’anno di deforestazione. Circa il 23% delle emissioni di gas serra di origine umana proviene da agricoltura, silvicoltura e altri usi del suolo (AFOLU).
Le emissioni sono prevalentemente dovute alla deforestazione, parzialmente compensate da imboschimenti e rimboschimenti e da altri usi del suolo. L’agricoltura è responsabile di circa la metà delle emissioni di metano indotte dall’uomo ed è la principale fonte di protossido di azoto, due gas ad effetto serra molto potenti.
Le condizioni insolitamente calde e secche dell’emisfero settentrionale hanno favorito incendi che si sono sviluppati in tutto il circolo polare artico ed in modo particolare nelle regioni siberiane. Anche in Alaska sono stati registrati da inizio 2019 più di 400 incendi con temperature che hanno raggiunto il 4 luglio 2019 i 32° C. Ondate di caldo record si sono verificate inoltre in tutta Europa con temperature che il 25 luglio hanno superato i 40° in Belgio, Germania; Lussemburgo e Olanda. A Parigi il termometro ha registrato la temperatura record di 42,6° C da quando è attiva la stazione meteorologica (1869).
Il mese di giugno 2019 è risultato sempre in Europa il più caldo in assoluto mai rilevato. Mediamente sono state registrate anomalie dell’ordine dei 2°C rispetto al periodo di riferimento 1981-2010, ma alcune aree, come Francia, Svizzera, Germania e anche il nord Italia, hanno fatto registrare anomalie anche di 6-10°C nei 5 giorni più caldi dal 25 al 29 giugno (fig. 4). I dati appena citati provengono dai nuovi dataset del Copernicus Climate Change Service (C3S), un servizio implementato dal Centro Europeo per le Previsioni Meteorologiche a medio termine (ECMWF).
Nuovi studi confermano inoltre che l’emissione di gas serra in atmosfera non è imputabile esclusivamente agli incendi o a processi antropogenici (agricoltura, industria, trasporti e mobilità) ma esso trova riscontro nei processi di scongelamento del permafrost nelle regioni artiche. Il ghiaccio presente all’interno del suolo anche a notevoli profondità si sta sciogliendo in seguito all’innalzamento delle temperature (fig. 5).
Ingenti quantità di anidride carbonica immagazzinata nella sostanza organica di piante e animali presenti all’interno dei sedimenti si disperde nei corsi d’acqua e nei laghi dove per effetto dell’evaporazione si trasforma in gas serra liberandosi in atmosfera. Il processo appare più rapido di quanto ritenuto in passato e rende la zona occidentale della Siberia una delle aree a maggior emissione di gas serra.
Sergey Zimov è un geofisico russo, specializzato in ecologia artica e subartica e direttore del Northeast Scientific Station (un istituto di ricerca dell’Accademia delle scienze russa). In un recente articolo pubblicato su Nature Comunications n. 10 sostiene che il riscaldamento del permafrost ha il potenziale per amplificare il cambiamento climatico globale. Un quarto dell’emisfero settentrionale e il 17% della superficie terrestre esposta della terra è sostenuta dal permafrost (temperatura inferiore a 0° C per almeno 2 anni) ed è quindi sensibile al cambiamento delle condizioni climatiche ed in particolare all’aumento della temperatura dell’aria ed al mutamento dei regimi nevosi.
Negli ultimi decenni l’atmosfera delle regioni polari e ad alta quota si è riscaldata più velocemente che altrove. Il ricercatore russo sostiene che il rilascio di carbonio derivante dalla degradazione del permafrost avrà un elevato impatto sul sistema climatico terrestre poiché grandi quantità di carbonio precedentemente ibernate nella materia organica si decompongono in biossido di carbonio e metano (fig. 6). Alcuni ricercatori hanno proposto un aumento del riscaldamento globale imputabile a questi processi di 0,13-0,27°C entro il 2100 e fino a 0,42°C entro il 2300, sebbene la mancanza di set di dati globali standardizzati non permetta un’adeguata validazione di tale modello.
La maggior parte dell’atmosfera terrestre è composta da una miscela di pochi gas: azoto, ossigeno e argon; la combinazione di questi tre gas comprende oltre il 99,5% di tutte le molecole di gas nell’atmosfera. Questi composti non mostrano quasi alcun effetto sul riscaldamento della terra e della sua atmosfera poiché non assorbono le radiazioni visibili o infrarosse. Tuttavia, vi sono gas minori che costituiscono solo una piccola porzione dell’atmosfera (circa lo 0,43% di tutte le molecole d’aria, la maggior parte delle quali sono di vapore acqueo allo 0,39%) che assorbono le radiazioni infrarosse.
Questi gas “traccia” contribuiscono in modo sostanziale al riscaldamento della superficie e dell’atmosfera terrestre grazie alle loro capacità di contenere la radiazione infrarossa emessa dalla Terra. Poiché queste tracce di gas influenzano la Terra in un modo alquanto simile ad una serra, essi sono indicati appunto come gas serra.
Fra i gas ad effetto serra (GHG), il vapore acqueo è importante, poiché a livello globale è il più abbondante, anche se varia dallo 0 al 3% a seconda delle regioni. Gli altri gas serra che vengono ritenuti determinanti ai fini del riscaldamento globale sono l’anidride carbonica (CO2), il metano (CH4), l’ossido di azoto (N2O) e l’esafloruro di zolfo (SF6).
Da oltre un secolo, gli scienziati hanno capito che le concentrazioni di gas atmosferici possono influenzare significativamente il clima terrestre attraverso questo processo. I ricercatori misurano i gas a effetto serra nell’atmosfera da oltre 50 anni. Oggi esistono prove scientifiche inequivocabili che l’abbondanza di questi gas sta aumentando nell’atmosfera. Le prove comprendono decenni di misurazioni globali accuratamente calibrate di questi gas in traccia, combinate con misurazioni di aria preservata in bolle incorporate in carote di ghiaccio e misurazioni di isotopi di carbonio negli anelli degli alberi.
Tra i GHG, la concentrazione di CO2 in atmosfera è di grande preoccupazione perché contribuisce maggiormente all’effetto serra potenziato e ai cambiamenti climatici. Per questo motivo, la comunità scientifica internazionale studia attentamente questa molecola e cerca di quantificarne l’abbondanza in atmosfera e di tracciarne i mutamenti. La molecola di CO2 è coinvolta in una complessa serie di processi chiamati ciclo del carbonio, in cui l’atomo di carbonio all’interno della molecola si muove tra molti diversi serbatoi naturali (fig.7).
Il carbonio viene continuamente scambiato e riciclato tra i serbatoi attraverso processi naturali. Questi processi avvengono a varie velocità che vanno dalle fluttuazioni a breve termine che si verificano quotidianamente e stagionalmente (fotosintesi delle piante) a cicli a lungo termine che si verificano nel corso di migliaia di anni fino a centinaia di milioni di anni (glaciazioni e processi litogenetici).
La mappatura della concentrazione di CO2 in atmosfera proposta da NOAA (fig. 8) evidenzia una fluttuazione delle concentrazioni in un intervallo compreso tra 200 ppm e 300 ppm negli ultimi 800.000 anni ma con un notevole incremento negli ultimi decenni che ha portato la CO2 atmosferica a valori di 406 ppm a gennaio 2017.
Inquinamento da particolato atmosferico e diffusione di agenti patogeni nella popolazione (… ma non è tutta colpa del pipistrello?)
Le fonti principali delle polveri sottili possono essere di tipo naturale (incendi boschivi, attività vulcanica, aerosol marino, pollini e spore, erosione di rocce e sedimenti) o di tipo antropogenico (traffico veicolare, uso di combustibili solidi per il riscaldamento, residui industriali etc).
Le polveri fini, denominate PM, sono delle particelle inquinanti presenti nell’aria che respiriamo. Queste piccole particelle possono essere di natura organica o inorganica e presentarsi allo stato solido o liquido. Le particelle sono capaci di assorbire sulla loro superficie diverse sostanze con proprietà tossiche quali solfati, nitrati, metalli e composti volatili.
Le polveri fini vengono classificate in base alle loro dimensioni e al loro grado di nocività. Più piccole sono le dimensioni e maggiore sarà la loro capacità di penetrare nell’apparato respiratorio. Le PM10 (diametro inferiore a 10 µm) possono essere inalate e penetrare nel tratto superiore dell’apparato respiratorio, dal naso alla laringe; le PM2.5 (diametro inferiore a 2,50 µm) possono essere respirate e spingersi nella parte più profonda dell’apparato, fino a raggiungere i bronchi.
La tematica relativa alle polveri sottili quale veicolo di diffusione di patogeni è divenuto un argomento molto dibattuto in seno alla comunità scientifica in seguito alla attuale diffusione della pandemia da COVID-19.
In un documento diffuso recentemente dalla Società Italiana di Medicina Ambientale “Relazione circa l’effetto dell’inquinamento da particolato atmosferico e la diffusione di virus nella popolazione” vengono elencati alcuni casi di diffusione dei virus in relazione alle concentrazioni di particolato atmosferico (2010 influenza aviaria, 2016 RSV, 2017 -2020 morbillo). Secondo questo studio il particolato atmosferico funziona da vettore di trasporto per molti contaminanti biologici, inclusi i virus.
Nel rapporto viene esposta un’analisi preliminare riguardante la possibile correlazione tra i dati di concentrazione giornaliera di PM10 rilevati da ARPA (Agenzie Regionali per la protezione Ambientale) ed il numero di casi infetti da COVID-19 in Italia, pubblicati sul sito della Protezione Civile (fig. 9).
L’analisi sembra indicare una relazione diretta tra il numero di casi di COVID-19 e lo stato di inquinamento da PM10 delle provincie italiane. In particolare la concentrazione dei maggiori focolai si registra nelle regioni del nord Italia, dove in relazione al periodo 10-29 febbraio concentrazioni elevate superiori a limite di PM10 possono avere esercitato un‘azione di impulso alla diffusione virulenta dell’epidemia soprattutto in Pianura Padana, a differenza di quanto rilevato nelle altre regioni italiane.
Ma perché se i processi osservati e documentati dalla comunità scientifica internazionale sono così chiari non riusciamo ad attivare percorsi di sviluppo incisivi che possano mitigare gli effetti del riscaldamento globale?
In un recente articolo dal titolo “Gli umani sono cablati per respingere fatti che non si adattano alla loro visione del mondo” il filosofo americano Adrian Bardon scrive che all’interno della sfera politica conservatrice americana il riscaldamento globale o è una bufala o è un tema così incerto da non essere degno di risposta.
Nell’articolo Bardon sostiene:
«in teoria la risoluzione delle controversie fattuali dovrebbe essere relativamente semplice: presentare solo prove di un forte consesso di esperti. Questo approccio ha successo il più delle volte quando il problema è riconducibili ad una semplice operazione di analisi empirica che possa produrre spiegazioni causali verificabili (ad esempio il peso dell’atomo di idrogeno). Ma le cose non funzionano in questo modo quando il consenso scientifico presenta un quadro che minaccia la visione ideologica del mondo di qualcuno. In pratica si scopre che la propria identità politica, religiosa o etnica predice in modo abbastanza efficace la propria disponibilità ad accettare le competenze su una determinata questione politicizzata. Il ragionamento motivato è ciò che gli scienziati sociali chiamano il processo di decidere quali prove accettare in base alla conclusione che si preferisce».
Un elemento importante emerso da uno studio del 2015 di alcuni ricercatori americani “Credenze dei cittadini, degli scienziati e dei consiglieri in materia di riscaldamento globale”. Dimostra che la polarizzazione ideologica sulla realtà dei cambiamenti climatici non deriva dall’ignoranza, ma contrariamente aumenta con l’aumentare delle competenze di ciascun intervistato.
Le probabilità che un conservatore sia uno scettico irriducibile del cambiamento sono significativamente più alte se il soggetto ha un elevato grado di istruzione.
Adrian Bardon conclude:
«… i fatti da soli hanno un potere limitato per risolvere questioni politicizzate come i cambiamenti climatici o la politica di immigrazione. Ma comprendere correttamente il fenomeno della negazione è sicuramente un primo passo cruciale per affrontarlo».
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