L’umanità che ci abita: la quarantena come possibilità di incontro con l’umano

Anche nei momenti più difficili l’uomo può imparare a trasformare una crisi in possibilità, scoprendo nuovi significati

Che momento strano.

Mi capita spesso ultimamente di trovarmi all’imbrunire a contemplare il silenzio, osservando da lontano le luci accese nelle case del paese. Quiete irrequieta. Buio illuminato. Silenzio assordante. Calma inquieta.

Paradossi che mettono in scacco la nostra capacità di confrontarci con le nostre emozioni, ora più che mai. Costretti ad un riposo forzato ma incapaci di riposare davvero, in un triste e continuo susseguirsi di riposi eterni. Il tempo sospeso e mortifero diventa anch’esso, come noi, spettatore di una vita che continua a scorrere inesorabile, seguendo un andamento sconosciuto e inconoscibile. E noi fluttuiamo in questo flusso, nell’illusione di aver guadagnato tempo ma nella terribile impressione che lo stiamo sprecando. Altro paradosso, altro scacco.

Uno “scacco matto”.

Sembra di impazzire


Eh già, perché a momenti ci pare di impazzire, di “uscire di testa”. Siamo in balia di un sentire a cui non siamo abituati, di un tempo improduttivo che non riusciamo a pianificare, di circostanze future che non possiamo prevedere e di pensieri che non riusciamo più ad imbrigliare. E proprio quando tremano e cadono i riferimenti consueti attorno ai quali costruiamo le nostre certezze, allora emerge la “follia che ci abita”, come la chiama Umberto Galimberti.

Follia che altro non è se non la nostra essenza più profonda, ciò che ci individua nella nostra unicità, ciò che ha il potere di riportare ogni uomo alla sua condizione di umanità. Ed è difficile accettare la nostra umanità quando la quotidianità abituale ci vede assorbiti nel tentativo di protendere ad una dimensione pressoché “divina”.

Incarniamo ideali di perfezione che spesso nemmeno comprendiamo o tanto meno condividiamo. Viviamo a ritmi che, nell’illusione di avvicinarci alla ricchezza, ci allontanano da noi stessi. Scandiamo la nostra esistenza con elementi prevedibili e controllabili e tendiamo a percorrere sentieri già spianati. Abbiamo bisogno di risposte immediate, in una generalizzata incapacità di rimanere fermi nell’attesa, nell’incertezza, nella marea emotiva che allo stesso tempo ci culla e ci minaccia.

Il pensiero della morte


E poi improvvisamente ci troviamo calati in una condizione drammatica, che ci stringe il cuore e ci costringe in casa. Ci troviamo piano piano tutti, anche se in differente misura, a fare i conti con tutto ciò da cui ci hanno sempre insegnato a difenderci: noia, vulnerabilità, ignoto, perdita di senso, privazione della libertà, solitudine e ahimè la morte. Sperimentiamo una limitatezza che ci colpisce su diversi piani: fisico, relazionale, emotivo, ideale ma soprattutto esistenziale.

Ci sono limiti che ci vengono dati dall’esterno, come ad esempio le restrizioni a cui ci dobbiamo attenere, e poi ci sono limiti che ci appartengono intrinsecamente per il solo fatto di essere venuti al mondo, come la consapevolezza che non dureremo in eterno. Per nessuno di noi credo sia facile accogliere il pensiero della morte nella propria vita, anzi abbiamo sviluppato credenze secolari e meccanismi di diniego solo per renderla meno definitiva, meno presente.

Un tumulto di emozioni


Ma in situazioni come questa, le strategie possono non essere sufficienti e può capitare a tutti, più o meno consapevolmente, di dover fare i conti con questo limite incarnato nella nostra esistenza: la nostra mortalità. E come tutto ciò che non possiamo vedere e non ci possiamo rappresentare, esattamente come il vuoto e il buio, causa in noi un tumulto di emozioni difficili da comprendere ma soprattutto da accettare e vivere. Ansia, angoscia, inquietudine sono emozioni senza un oggetto definito, a differenza della paura che invece è prevalentemente direzionata. Ad esempio possiamo aver paura del virus, di perdere una persona cara, e dire di sentirci angosciati per questa situazione nuova, incerta e dai risvolti imprevedibili.

Facciamo molta fatica, ed è comprensibile, ad utilizzare la consapevolezza della nostra finitezza come catalizzatore di un reinvestimento sulla vita e sul nostro particolare e personale modo di viverla. Facciamo fatica ad accettare i limiti che appartengono all’essere fondamentalmente e profondamente umani, a diventarne consapevoli per poter riorganizzare le nostre priorità e dare valore e significato alla nostra esistenza.

Stare nel dubbio


Non è facile perché questa umanità, che ora più che mai preme per emergere, ci fa sentire immobili e impotenti. Ma forse possiamo fare qualcosa per non cedere ad una passiva rassegnazione al corso degli eventi e a questo marasma di emozioni, difficili ma innegabili. Ciò che non dobbiamo smettere di chiederci è: come facciamo a fare qualcosa di ciò che questa circostanza ha fatto di noi? Come possiamo trarre da questa atmosfera mortifera qualcosa di generativo?

Accettazione, consapevolezza e speranza possono essere chiavi importanti.

Mi torna alla mente il concetto di “capacità negativa” di John Keats. La capacità di stare nel dubbio, nell’incertezza e in tutte quelle emozioni e condizioni che abbiamo accennato, senza doverne a tutti i costi ricercare spiegazioni razionali, prevedibilità e controllo. La capacità di stare dentro alle cose, di sentirle e di viverle ci permette di scoprirle e conoscerle finché quella follia che ci abita, quella pura umanità che ci caratterizza e ci accomuna, non riuscirà a trovare un modo per illuminare il buio e armonizzare il silenzio.

Insegnamenti


A quel punto capiremo che anche una situazione così dolorosa e difficile può insegnarci qualcosa.

E lo capiremo solo se sceglieremo di farlo attivamente, concedendoci quella possibilità di un dialogo interno con la nostra profondità, evitando di allontanare reattivamente tutto ciò che ci spaventa o a cui non siamo abituati. L’evoluzione dell’uomo si basa sulla sua unica capacità di fare dei momenti di crisi delle possibilità, per sviluppare risorse che gli consentano non solo di sopravvivere ma soprattutto di scegliere di vivere un’esistenza intrisa di significato.

In questa particolare esperienza costrittiva abbiamo due distinti orizzonti che si collocano l’uno all’interno e l’altro all’esterno della metaforica siepe leopardiana. “Di là da quella” si proietta la speranza e l’ideale del mondo in cui vogliamo tornare a vivere. Al di qua c’è quel giardino, più o meno segreto, in cui la nostra umanità sta cercando di germogliare e che rappresenta l’unico vero spazio di possibilità di cui possiamo concretamente prenderci cura.

E così tra queste moltitudini di immensità “si annegherà il nostro pensiero” e forse “il naufragare ci sembrerà un pò più dolce in questo mare

Psicologa clinica e psicoterapeuta in formazione. Nata a Trento nel 1992. Ha frequentato il liceo linguistico Rosmini. Laureata nel 2016 in psicologia clinico-dinamica all'Università di Padova. È iscritta all'albo degli psicologi della provincia di Trento