LAVIS. Nella borgata lavoratrice e impegnata di oltre un secolo fa non si praticava e esercitava solamente l’agricoltura, che era peraltro in buona compagnia con i vari mulini, le segherie e le fucine artigianali alimentate dall’Avisio, ma primeggiava anche l’industria serica con la lavorazione, anche casalinga, dei bachi da seta (i cavaleri appunto).
Dalle memorie storiche dei nonni e bisnonni poi era trapelata, per filo e per segno, tutta la storia di questi lepidotteri notturni filatori, i cosiddetti bachi da seta, allevati sulle famose “arele” che erano una sorta di graticcio quadrato, fatto di canne e cannucce, legate saldamente insieme con gli “strami” (i fusti secchi delle piante di granoturco) e vimini (le strope) intrecciati tra di loro.
I “cavaleri” subivano una metamorfosi in quattro stadi e il baco allo stato di larva compiva ben quattro mute, chiamate dai più anziani anche con il nome di vere e proprie “dormite”. Intenso era il lavoro giornaliero tutt’intorno alle varie e numerose “arele”, fatto perlopiù dalle mamme e dalle nonne, mentre tutti gli uomini di casa lavoravano nei campi.
In tutte le stanze dove soggiornavano i bachi bisognava poi mantenere la temperatura sempre costante (intorno ai 17 gradi), locali sempre ventilati con le imposte semiaperte che si chiudevano soltanto quando fuori faceva veramente freddo. Era un rito vero e proprio quello della bachicoltura casalinga, la cui conclusione avveniva solamente con il recupero del bozzolo intero (galeta) e la sua consegna alla filanda per la lavorazione.
I bozzoli arrivavano in filanda dove venivano effettuate le operazioni più importanti della cosiddetta “trattura”. Dopo la “stufatura” (il soffocamento della crisalide all’interno del bozzolo), si passava alla vera e propria scelta e cernita dei bozzoli stessi. Un bel bozzolo, si diceva, poteva dare almeno intorno ai mille metri di filo, quest’ultimo veniva poi ripreso dalle lavoratrici della filanda chiamate “scopinatrici” (scopine per i più nostalgici), poi agganciato e avvolto sul fuso apposito, questa era la seta greggia (o tratta).
Per i bachi da seta nostrani arrivò poi anche l’apocalisse improvvisa, nel senso che arrivò il flagello temuto, quello della pebrina, la malattia detta anche la strofia del baco. Si dovettero cercare altre sementi sane e forti e vi riusci proprio un prete nativo di Lavis, don Giuseppe Grazioli, che con decisione e sangue freddo improvvisò ben cinque viaggi avventurosi proprio in Giappone verso il 1869.
Si portò a casa alcuni contenitori pieni del nuovo seme proprio da Yokoama e così si riprese alla grande la lavorazione dei bachi con questa nuova qualità provvidenziale che creò il nuovo baco lavisano.
Dopo il Tambosi la filanda tirò avanti alla meno peggio con la Società Serica Trentina, dal 1947 anche con la Società Tessile Trentina e infine con la Tessile Tamanini di Mezzolombardo. Dal 1955 al posto dei bachi da seta arrivarono i primi radio e televisori dell’Austro Ital concessionaria per l’Italia della Grundig germanica, tutto lo stabilimento venne acquistato dai fratelli Benvenuto titolari appunto dell’Austro Ital. Oggi al suo posto sono ospitati su tutta la zona gli archivi insieme a tutti i magazzini della sede di via Nazionale della Banca Unicredit e si è ipotizzato il trasferimento della Trentino School of Managment.
E le piante di gelso? Sono scomparse quasi totalmente da tutte le campagne e i prati della zona, qualcuno ricorda ancora quelle interne alla borgata. In centro c’era quella grandiosa pianta di gelso proprio in mezzo al cortile-campagna delle suore Canossiane, una pianta gigantesca c’era anche lungo la roggia tra le case Mariotti- Cadrobbi di via Carmine (ora via Degasperi), altra bella pianta con tante foglie e frutti era quella nella tenuta dei Zippel lungo il confine con la via Orti.
I “cavaleri e le galete” sono stati, per tante generazioni di lavisani, il sostentamento vero e proprio, ma anche croce e delizia di tante, tantissime famiglie di quei tempi indimenticati. La vecchia e cara filanda, infine, rivive ancora tra i ricordi musicali del passato e di quando le giovani lavoratrici di quei tempi cantavano insieme “Le povere filandine” o anche quella de “La Filandera”, canzoni autobiografiche sul lavoro stressante giornaliero.
A portare poi un po’ di allegria moderna arrivò invece intorno agli anni 60/70 anche Milva che cantava a squarciagola la sua canzone “La Filanda” che diceva proprio così: “Cos’è, cos’è / che fa andare la filanda / è chiara la faccenda / son quelle come me / e c’è , e c’è / che ci lascio sul telaio / le lacrime del guaio / di aver amato te…”. Altri tempi, ma anche altre canzoni, purtroppo!
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