LAVIS. Sono passati esattamente 35 anni dalla tragedia di Stava. Quel giorno la morte si vestì di fango e l’onda assassina si abbatté con un boato all’ora di pranzo del 19 luglio del 1985. Era un venerdì come tanti: ma da lì a poco diventerà uno dei giorni più drammatici della storia recente d’Italia. Morirono 268 persone.
Sopra Tesero, Stava è una piccola frazione in val di Fiemme. Migliaia di metri cubi di detriti, acqua e fango inghiottiscono l’intero borgo, cancellandolo. Travolgono campi, case, alberghi, villette e stalle. E persone: turisti, contadini della vallata, donne, uomini e bambini. Fra chi viene sommerso quasi nessuno sopravvive. È il Vajont trentino, vent’anni dopo. Una tragedia.
C’è un bacino artificiale al di sopra di Stava, in località Pozzole. Su quella sommità c’è la miniera dove viene estratta la fluorite. Vengono costruiti bacini di decantazione, dove sono ammassati i detriti e gli scarti degli scavi. In quel tragico 19 luglio, l’argine superiore cede sotto al peso del fango; così fa anche quello più in basso. I detriti diventano un’onda che travolge ogni cosa che incontra, fino all’Avisio.
«Di queste dighe interne, incontrollate, ce ne sono purtroppo molte sulle nostre montagne. È stato come precipitare nelle sabbie mobili. Non è possibile che succedano ancora queste cose», si sfoga – a poche ore dalla tragedia – in un’intervista al Corriere della Sera il ministro alla protezione civile Giuseppe Zamberletti, con i piedi ancora immersi nel frango. Nel cielo volano gli elicotteri. Ci sono i mezzi dei militari, quelli dei vigili del fuoco, le ambulanze, carabinieri, polizia e guardia di finanza. Migliaia di soccorritori, chi scava con le pale e chi pure a mani nude. In uno strano senso d’irrealtà la val di Fiemme si riempie anche dei mezzi di turisti. Chi scende per fuggire, chi sale in cerca dei parenti.
Una cinquantina di chilometri più in basso, per Lavis è all’apparenza una giornata come le altre. Gli uomini sono impegnati nei campi, fra i contadini ci sono anche molti vigili del fuoco. D’improvviso si sentono le sirene dei mezzi di soccorso in colonna e nel cielo si vedono i primi elicotteri.
L’allarme non arriva ancora a Lavis, ma basta poco per capire che è successo qualcosa. Qualcosa di grosso. In val di Cembra forse. O più su, in val di Fiemme. Una parte dei mezzi prosegue dritta verso Bolzano, un’altra sale verso Giovo. «Sì, dev’essere proprio in val di Fiemme», si dicono.
Allarmati dallo strano movimento, i vigili del fuoco si ritrovano quasi d’istinto nella loro sede. Ai tempi non c’era ancora la caserma di via Cembra, sarà inaugurata solo alla fine degli anni Ottanta. Il magazzino dei pompieri è al piano terra dell’ex macello, nell’edificio oggi utilizzato per la biblioteca e l’auditorium.
Hanno a disposizione solo una radio, montata sulla Campagnola, praticamente l’unico mezzo utilizzato allora. Scoprono così di Stava, intercettando le comunicazioni fra i soccorritori. Un po’ per caso, come può accadere quando i cellulari sono ancora costosi e internet è poco più di un esperimento.
È il primo pomeriggio quando il comandante Aurelio Obrelli chiama a rapporto tutti i vigili del fuoco: si discute di un possibile intervento. Per ora si decide però di aspettare per non intralciare gli altri soccorsi e attendere istruzioni.
Alla fine i vigili del fuoco di Lavis partono che è già notte e qualcuno arriverà il giorno successivo. Tesero è già un paese deserto. «Sembra quasi che tutti abbiano l’influenza e si siano rinchiusi in casa», dice uno dei vigili del fuoco di Lavis, appollaiato sulla Campagnola. Appena fuori Tesero ci sono però i primi alberi coperti di fango e fluorite, inquietanti sagome che fanno presagire il peggio; nel cielo si sente passare un elicottero e nell’aria l’odore di fango è impressionante.
Arrivati a Stava, ai pompieri lavisani viene assegnata prima la zona alta, poi quella sull’Avisio. È un deserto di fango. «Provate a scavare – si sentono dire i vigili del fuoco – ma state attenti, perché sotto al fango ci sono le case. Il rischio è di finire nelle cantine». I pompieri sono impegnati a due a due, vanno lì dove si scava e cercano l’eventuale presenza di cadaveri.
«In tutta la mia vita questo è uno dei momenti che mi hanno toccato di più – dice oggi Franco Gabos. Anche lui era fra i pompieri di Lavis a Stava e negli anni Novanta diventerà poi comandante –. Sono momenti in cui vivi la tristezza, quella più autentica. Però hai anche l’occasione di accorgerti di quello che, nel tuo piccolo, puoi fare per gli altri. E sempre senza chiedere nulla in cambio. È questo che ti grafica: non le mille o le centomila lire, l’esserci per gli altri». «C’erano case accartocciate, i soccorritori entravano fra un solaio e l’altro, non sapevano cosa avrebbero trovato dentro. Bisognava avere coraggio».
«Ricordo che c’era una persona, se ne stava in un angolo con la testa fra le mani – continua a raccontare Gabos -. Gli abbiamo chiesto: “Cosa ti è successo?”. Si vedeva che era disperato, se ne stava lì davanti a una motocicletta ribaltata. Ci dice: “Qui c’era la nostra casetta. Io, mia moglie e mio figlio. E siccome nostro figlio se n’era andato in giro con la moto e noi non volevamo, lo abbiamo messo in castigo. Noi siamo andati a mangiare la pizza per pranzo, lui è rimasto a casa”. Quando sono tornati non hanno trovato più nulla: né la casa, né il figlio».
Il cadavere del ragazzo spunterà qualche tempo dopo, sepolto nel fango vicino all’Avisio.
I vigili del fuoco di Lavis possono vedere dall’alto la zona degli alberghi. Lì sotto i soccorritori sem-brano come piccole formiche operaie, con pale e ruspe. Stava è sprofondata fino all’inferno. Col cuore frantumato i pompieri iniziano a supportare gli scavi: trovano lembi di animali. E poi spuntano le scarpe. I corpi. Pezzi di uomini smembrati e lanciati a distanza fra loro.
I pompieri a un certo punto si accorgono che, su un solco di terra vicino a loro, si è appoggiato un lenzuolo, rimasto completamente bianco, intonso, abbacinante nel vuoto e nel fango lasciato dall’onda assassina. È un contrasto di colori che li colpisce, rimanendo impresso nei loro ricordi ancora oggi: il bianco del lenzuolo sul nero del fango. Forse quel lenzuolo si è levato da una casa, ha volteggiato nell’aria per poi posarsi di nuovo sulla terra impietosa. Come un simbolo: il sudario che copre il luogo dove già riposano i morti innocenti.
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