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In una lettera di don Giuseppe Taufer i ricordi della guerra a Lavis

Lavis. Era il lontano ottobre 2004 quando io e l’amico Mario Moser siamo stati contattati da alcuni ricercatori di Bellinzona (Svizzera) per avere informazioni sul paese di Lavis, sul ponte dei Vodi e sui cannoni della contraerea che contrastavano i bombardamenti del ponte negli anni 1944-1945. Questi ricercatori stavano scrivendo la storia di un bombardiere americano Mitchell B25 che era stato colpito mentre bombardava il ponte dei Vodi. L’aereo era andato a cadere in fiamme in Svizzera e i suoi componenti lanciatisi con il paracadute si erano salvati tutti (a questo link potete trovare il documentario realizzato dalla televisione svizzera).

Ne è nata fitta corrispondenza culminata domenica 6 febbraio 2005 con la visita a Lavis dei ricercatori svizzeri, di un aviatore (arrivato dagli Stati Uniti) che faceva parte dell’equipaggio del bombardiere colpito e di una quindicina di persone che facevano parte della contraerea, nei fumogeni, con la Todt o altri servizi al ponte dei Vodi durante i mesi dei bombardamenti americani.

I giornali locali di allora avevano dato molto risalto alla cosa uscendo con parecchi articoli sia nei giorni precedenti all’incontro sia in quelli successivi. Uno di questi articoli del giornale Adige fu letto anche da don Giuseppe Taufer che negli anni 1944-1945 era prete proprio a Lavis. Il sacerdote scrisse una lettera al sig. Luigi Devigili, nominato nell’articolo del giornale, dicendo che voleva essere presente anche lui all’incontro.

La lettera il Devigili poi la diede a me e mi è sembrato giusto portarla a conoscenza alla comunità di Lavis perché è una preziosa testimonianza, anche con parole e ricordi molto duri, di quei giorni di guerra. Ecco la trascrizione integrale.

La lettera di Don Taufer


Sono ritornato dal Trentino ieri sera con l’Adige del 2 febbraio, interessato a leggere la pagina 31 con la storia del mitragliere che salvò gli inglesi. Lo ho appena letto col desiderio di essere presente con i veterani dei Vodi al raduno di domenica prossima, se arrivassi in tempo prioritario.

Sono un prete ordinato a Denno nel 1944 ed ebbi come prima destinazione Lavis dove arrivai il 15 settembre con l’idealismo e l’inesperienza di un prete novello, e potei sentire tutti i bombardamenti iniziati ai primi di ottobre, più di 140 secondo, come ho sentito dalla gente.

In canonica trovai il decano Mons. Celestino Brigà, Mons. Antonio Longo ex assistente dell’Università del Sacro Cuore e pupillo del parroco, il cappellano don Gino Odorizzi che partì subito per altra destinazione, la Catina domestica e la Lucia non più giovane nipote del parroco.


Leggi anche – Don Celestino Brigà, l’antifascista con la tonaca, per più di trent’anni a Lavis


Pensando che l’obiettivo era il Ponte dei Vodi, durante gli allarmi me ne stavo tranquillo a casa. Un giorno mi arrivò affannata una donna a dirmi che aveva la vecchia mamma inferma e che la paura le impediva di restare a farle compagnia: se facessi il piacere di fargliela io. Ben volentieri, e ricordo una frase di quella nonna “Che fortuna che ho un prete a farmi compagnia”.

In una casa abbandonata nella campagna c’era un militare tedesco e cinque sei giovani dei nostri paesi in divisa dei fumogeni che durante gli allarmi facevano la nebbia per impedire la vista del ponte della ferrovia. Alle prime visite il tedesco mi diceva che ascoltavo la radio clandestina o Radio Londra, ma quando fu sicuro della mia onestà, tirava fuori la foto della moglie e dei figli che teneva sul petto, e imprecava contro Hitler, cosa che mai avrebbe osato se fossero stati in due. Poveri uomini! Ne avevano proprio fino al gozzo.

Lungo le strade verso il ponte dei Vodi ogni 100 metri c’era un bidone contenente acido ed uno aria compressa collegati fra loro con un rubinetto di uscita. Quando veniva suonato l’allarme i rubinetti dovevano venire aperti. Si generava cosi un fumo bianco che copriva tutta la valle per nascondere agli aerei l’obiettivo da colpire. Ogni addetto aveva al massimo quattro fusti da aprire, aperti questi non si vedeva più niente.

In novembre fu finita una deviazione della ferrovia ad una certa distanza dal ponte, poco più alta dal livello dell’acqua, ma l’Avisio si ingrossò tanto per le piogge che travolse un treno che cercava di passare. Tutti i passeggeri annegati, si diceva anche una coppia di sposi in viaggio di nozze(!) ma di essi non si seppe mai niente: i tedeschi non fecero mai una parola.

Nello stesso mese andavo in chiesa per la Messa prima che era ancora notte e molto nebbioso. Per la strada era un viavai di gente insolito. In sagrestia chiesi al sagrestano Udalrico Vindimian cosa c’era; “Non ha sentito niente? Ieri sera Pippo ha lasciato cadere tre bombe al ponte di San Lazzaro”. Non avevo sentito niente. Intanto fu finito il rifugio scavato nella roccia sul Pristòl. C’era gente che ci viveva 24 ore su 24. Una domenica vi fu celebrata la Santa Messa: non vi dico la devozione. Visitando la gente, una volta vi trovai nel letto un giovane con tanto di polmonite. “Siete matti? Qui muore di sicuro: lasciatelo a casa, vengo io a fargli compagnia” e così fu fatto.

Già da tempo andavo in un “vòlto” sulla stradetta che dal monumento a don Grazioli passava accanto alla scuola: vi si raccoglievano persone anziane che non avevano la forza di correre al rifugio (al rifugio non si andava si correva). Quando arrivava il prete, pareva che fosse suonato il cessato pericolo.

Foto aerea della zona di Lavis eseguita dagli equipaggi dei bombardieri alleati durante l’autunno del 1944: si scorgono le linee ferroviarie, l’alveo dell’Avviso, l’abitato e i fumogeni in azione. Si vede anche la nuova linea ferroviaria alternativa a quella dei Vodi

Il 2 gennaio mi trovavo dal suddetto giovane, quando si sentirono passare sul paese due caccia che lasciarono cadere le loro bombe, certo per colpire il ponte vicino alla casa di riposo: difatti fu colpito e solamente bucato nel centro. Una bomba cadde sulla segheria in mezzo al paese e il materiale ostruì talmente la roggia che l’acqua si riversò sulla strada fino in piazza Grazioli. Quando arrivai, mi si disse che era rimasto sotto il padrone: diedi una assoluzione… a vuoto, per fortuna, perché era in salvo.

Arrivato sul “stradon” c’era una vettura capovolta con la buca della bomba immediatamente dietro. A parecchi metri di distanza dalla vettura e a qualche metro dalla strada c’era una casa di campagna, isolata, con un orto davanti. Mi si disse che nell’orto c’era un soldato tedesco ferito. Andando verso di lui vidi sul muro una figura di uomo in piedi fatta di fango e sangue, e un soldato che sollevava una testa tutta nera con attaccato una polpetta di carne e terra. Il ferito aveva una spalla spaccata e la faccia coperta di terra; gliela pulii e gli suggerii qualche parola. Soldati tedeschi tolsero la porta di un gabinetto, vi adagiarono il ferito e lo portarono sulla strada. Alla sera pregando in camera all’oscuro mi venne in mente l’uomo che vidi sfracellato sul muro e immaginate l’orrore che provai. Il giorno dopo passando per strada incontrai tre soldati e uno mi venne incontro a dirmi che il ferito che avevo assistito, era morto nel tragitto verso Bolzano. Qualche giorno dopo ci fu un funerale. Entrai nella cappella del cimitero, e nel locale appresso vidi in un angolo un telo militare: lo alzo, c’è sotto quella polpetta di uomo.

Un giorno mentre visitavo gli abituali del rifugio, suonò l’ allarme. Mi avviai verso l’uscita per andare dai vecchietti, ma appena uscito vidi gente che arrivava di corsa con gli occhi fuori, e alcuni ufficiali tedeschi che mi chiesero: “dove va?” “Vado a far compagnia a vecchietti” – “Ma c’è l’allarme!” – “Non ho paura“. Cominciammo a litigare, loro gridavano e gridavo anch’io. Don Brigà che stava sull’entrata, mi disse “venga via”. Rientrai e volevo uscire dall’altra parte per scendere per altra via, ma trovai là due soldati che, molto gentili però, mi convinsero a non andare. Giovani del paese presenti al litigio mi dissero poi “Se le mettevano una mano solo sul braccio eravamo pronti a saltar loro addosso”.

Qualche sera dopo ci furono due caccia a bombardare il ponte. Ero stanchissimo, ma al pensiero che ci fosse qualche ferito o morto, presi una bottiglia in tasca e partii. Passai davanti alla caserma e mi vide uno di quelli che bisticciai al rifugio. Durante il viaggio incontravo giovani della nebbia che venivano a prendere la cena e chiedevo “vieni dai Vodi?” – “no”. E andavo sempre avanti.

All’ultima casa vicino alla ferrovia presi proprio la strada per il ponte. Incontro due soldati. “Venite dal ponte? “-“Si”- “Avete visto feriti o morti?” “No”. Ritorniamo indietro conversando. Vicino alla casa c’è il poliziotto che parla concitato con i soldati dell’antiaerea. Mi chiede a bruciapelo “quante bombe sono cadute?” – “Che ne so io!”.E a un soldato “Cosa ti ha chiesto?” – “se ci sono feriti o morti”-“Nient’altro?” – “No”. E all’altro “cosa ti ha chiesto?” – “Lo stesso”. Mi guardava feroce “cosa tiene là?” – “Una bottiglia, volevo prendere un po’ di acquavite, senza arrivare qui”. Si affaccia il comandante del posto, uno della Slesia; la polizia “Che tipo è questo?” – “E un buon pretino che viene a dire una buona parola ai soldati, è sempre stato lontano dalla Flak“. La polizia “pass auf: se vi troviamo qui un’altra volta vi spariamo”.

Per strada un soldato mi disse che era stato al fronte occidentale, dove avevano trovato spie travestite da prete o da monaca e che perciò non credevano facilmente.

Una delle tre postazioni antiaerea di mitraglia da 20 mm della Flak interrata in località Torbisi, al centro Luigi Devigili. Dovevano contrastare gli attacchi dei caccia P-47 Thunderbolt che scendevano in picchiata a bombardare e mitragliare a bassa quota. Il posto era molto pericoloso perché era vicino alla linea ferroviaria. I serventi delle 3 mitraglie erano 12 tutti trentini fra cui tre di Lavis

Però andai a Meano dove c’era il comandante di tutta la zona, il maggiore Stalo, il quale mi fece un lascia-passare. Naturalmente dopo di allora fui sempre pedinato. Ci fu perfino una donna che venne ad avvisarmi che soldati alloggiati in casa sua parlavano di un prete giovane alto che ai Vodi era stato visto dare un biglietto a uno che andava a Trento, e che aveva la radio trasmittente nel tabernacolo o confessionale.

Malgrado le ragioni di guerra c’era brava gente. Un militare di Stettino venne per parecchio tempo di sera dopo il servizio a fare la Comunione. A quel tempo c’era il digiuno dalla mezzanotte. Non gli chiesi mai se aveva dispense speciali. Un altro di diciotto anni, di Vienna, a una mia domanda rispose “oh se mia mamma sapesse che non mi comporto bene, che dispiacere proverebbe”.

Natale 1944 in casa Eccel in piazza Grazioli. Alcuni componenti della 95 Nebelkompanie, addetti
ai fumogeni. In piedi, il secondo da sinistra il maresciallo Brickmann poi il Sergente Paul Stier sottufficiali tedeschi. Gli altri sono trentini, fra cui il primo a sinistra di schiena Valerio Nardelli il terzo Pilati Tullio di Lavis il quarto Giuseppe Anesi

Poi dei nebbiogeni c’è il feldwebel Paul Stier di Brandeburgo, un uomo che i giovani della nebbia che dipendevano da lui chiamavano papà. Veniva in canonica ogni settimana perché era Eine Beduerfnis meine Seele – un bisogno della mia anima fare una conversazione con gli Spiritualen, i preti. Era protestante, ma di una fede vivissima. La Catina gli preparava sempre gli gnocchi strangolapreti, eine Delicatesse diceva.

A proposito di ferrovieri, alla stazione del treno ci furono per un periodo uomini di Val di Cembra costretti a far manutenzione di sera tardi. Andai a trovarli, parlai con 5 -6 soldati che li sorvegliavano offrendo una sigaretta. Parlai un po’ con i lavoratori, che vedevo uno togliere ghiaia con la pala e l’altro buttargliela lì, e allontanandomi udii un soldato sbraitare qualche cosa e il cembrano interprete tradurre “fioi fè en po’ de rumor”.

Don Brigà faceva onore al suo nome, sapeva brigare e trovare di tutto. Per un periodo portai ogni mattina una bottiglietta di latte a una bambina di San Lazzaro, della quale ricordo un orecchio tutto una piaga. Una sera mi fece scender con lui in ”caneva” e vidi una pila di 5 – 6 forme di formaggio. Ne presi giù una. Mi disse di tagliare da qui fino qui per la vedova tale che ha i figlioli piccoli, altri pezzi per altri. Intanto in paese infuriava il tifo e parecchi morirono. Bisogna ricordare con ammirazione l’opera del dottor Stainer. Per un periodo ci fu anche un medico dell’esercito, il quale contrariamente al digiuno che si usava ordinare ai malati di tifo, ordinava di mangiare. Chiedevo ai soldati e potei procurare cioccolata come nutrimento.


Leggi anche – La storia di Aldo Stainer, il dottore buono e medico dei poveri, a cui è intitolata la scuola media di Lavis


Passando vidi un pullman (di quel tempo) pieno di prigionieri politici di Milano in sosta in viaggio per la Germania. Mi pregavano un po’ d’acqua perché erano là dentro da tre giorni, ma la sentinella mi impedì. Mi portai più avanti e passai parola alle donne che vidi. Quelle si, riuscirono a dare acqua e qualche cosa di più.

Intanto arrivò la fine della guerra. Mentre suonavano le campane dalla gioia, in canonica c’erano due giovani cadetti allievi ufficiali tedeschi con una faccia triste. Al mio invita a rallegrarsi per la fine, risposero: è un giorno triste per la nostra Heimat. Gli americani fecero raccogliere tutto il materiale tedesco nei prati di Lamar. Dal seminario mi pregarono di chiedere cavo elettrico per impianti provvisori. Mi fu dato un soldato tedesco che mi guidò attraverso le meraviglie (lo dico sul serio) che vedevo e caricai un gran mucchio su un carretto.

Una notte avvenne uno scoppio che distrusse buona parte di quel bene e di quel male e ruppe vetri perfino a Lavis. Gli aspiranti di azione Cattolica pensarono di fare un pellegrinaggio a Pinè. Chiesi agli americani un camion con autista tedesco e guardia americana con fucile. Da Pergine a Pinè e ritorno facemmo a piedi, e nel ritorno fu un gran divertimento fingere picchiate aeree e mitragliamenti.

Appena una settimana dopo la fine, il vescovo mi diede il permesso di partire missionario. Don Brigà mi pregò di restare finché avesse uno da sostituirmi. Intanto i malati di tifo furono trasferiti a Pergine e ogni settimana prendevo una bici in prestito e nel pomeriggio andavo a trovarli. Don Tomasi che stava riprendendosi dal tifo, mi pregò di portargli gli studenti a Pietralba e di ritorno avrei potuto restare a casa mia. Partimmo col treno il 3 agosto fino ad Ora e salimmo a piedi. Il giorno dopo dovetti coricarmi sfinito. Per Provvidenza potei affidare i ragazzi ad alcuni chierici della Val di Non, e i frati presero una “bena” e il materasso e due muli e mi fecero portare a Nova Ponente. Di lì non so come arrivai al lazzaretto a Bolzano per 77 giorni di degenza con tifo.

Ritornato a casa sentii dai miei famigliari che avevano fatto preparativi per il funerale. Io stesso passai un giorno intero ad aspettare la morte, una vivissima luce in cui desideravo entrare. Ma ad impedirmelo ci sono state le preghiere dei lavisani che pregavano in chiesa per la mia guarigione.

Grazie e riconoscenza anche oggi.

Fiamenga (Pr) 3 febbraio 2005
Don Giuseppe Taufer

Canonica di Zivignago, don Giuseppe Taufer e il mitragliere della Flak Luigi Devigili si incontrano dopo oltre 60 anni

 

Carlo Refatti

Collezionista e appassionato di storia locale, è stato decorato con la croce nera del Tirolo È autore di alcuni libri sulle vicende belliche della prima guerra mondiale.

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