Lavis. Era l’antivigilia del Natale 1944, l’ultimo Natale di guerra anche per i lavisani. Sul paese infreddolito stava calando la sera mentre si preannunciava una furiosa tempesta di neve. Paolino lasciò di corsa la casa della nonna sul Pristòl dirigendosi, in fretta e furia, verso il castello diroccato e incompiuto dei Ciucioi. A mezza strada inciampò in un vecchio e malandato pastrano militare, forse caduto accidentalmente da qualche carretta di contadini che rincasavano dalle colline, oppure da qualche motocarrozzella dei militari tedeschi in giro di perlustrazione da quelle parti. “Questa notte sarà sicuramente più fredda del solito – pensò Paolino – e questo vecchio indumento provvidenziale servirà sicuramente anche da coperta data la sua grandezza”.
Intanto, qualche fiocco di neve leggerissimo e silenzioso incominciava a cadere, venendo giù attraverso i rami ormai spogli degli alberi. Quasi per dispetto qualche fiocco bianco andava a finire di tanto in tanto proprio nel collo del ragazzino, facendolo rabbrividire da quel improvviso contatto sulla pelle. Giù in fondo alla stradina di campagna si intravvedeva intanto l’immensa costruzione dell’antico castello abbandonato e quando Paolino arrivò sin sotto il loggione principale, si portò le mani alla bocca e chiamò forte “Teresina”. Una flebile vocina infantile, dalla gradinata superiore, gli rispose subito con prontezza e tempestività. Con quattro salti Paolino arrivò fin lassù, fin sotto la volta del grande salone abbandonato dove in terra, ombre nell’ombra, stavano accovacciate due piccole figure infantili.
“E’ tanto che ti aspetto, Paolino, ma dove sei stato in tutto questo tempo? – chiese la piccola intimorita – Luigino sta male, sembra che abbia anche la febbre oltre che tanta tosse”. Teresina era seduta nell’angolo buio vicino al grande caminetto aperto, spento ormai da tanti anni e teneva sulle ginocchia il fratellino con la bella testina bionda abbandonata nel suo grembo. “Sentilo come brucia, ha tanta febbre” sussurrò la bambina al fratello maggiore. Paolino si curvò un poco verso il fratellino e sfiorò con la mano la fronte che scottava veramente. “Brucia per davvero – disse preoccupato – potrei a questo punto tornare dalla nonna a prendere qualche medicina. Però con questo tempo che sta peggiorando sempre più e poi dopo la nostra scappatella da casa, creerei senz’altro un finimondo e la nonna si metterebbe in allarme. La mamma poi che è andata a Trento col tram in visita alla zia Adelina, lo verrebbe subito a sapere e si metterebbe in agitazione”.
Luigino intanto teneva gli occhi chiusi e la bocca semiaperta dalla quale usciva un respiro profondo. Una ciocca di capelli biondi gli scendeva dalla fronte arrossata. Quando però sentì parlare di medicine aprì un occhio e sussurrò “voglio stare qui con voi, non voglio andare dal dottore”. “Stai zitto Luigino e dormi aggiunse il fratello con fare imperioso, vedi di startene calmo e tranquillo che tutto passerà”. “Ho freddo – aggiunse poi tremando e con voce flebile il piccolo – incomincio ad avere proprio tanto freddo”.
“Mettiamogli addosso questo” dissero gli altri due fratelli, aprendo il grande e grosso pastrano trovato per strada. Era tanto ampio che ci stavano addirittura tutti e tre insieme e ben protetti. Erano come dentro un gran paravento e ci stavano bene, riparati anche dal vento che intanto sibilava tra i rovi e i grossi sassi del castello.
Anche Paolino si sedette per terra accanto a Teresina, incrociò le gambe minute e infreddolite. Assicurò un lato del vecchio pastrano dietro la schiena della sorellina, poi mise l’altro dietro la sua appoggiandosi poi sopra per non farsi portar via tutto dal vento che si faceva sempre più forte tra le pareti del vecchio maniero. “Ecco – disse Paolino – così va bene, adesso possiamo anche farci una dormita. Cosa penserà e dirà la nonna per la nostra lunga assenza?”. Teresina aggiunse ancora “Alla nonna racconteremo che siamo andati a fare la nostra consueta passeggiata sui Ciucioi, poi è sopraggiunto improvvisamente il brutto tempo che ci ha costretti a fermarci e ripararci qui sotto. Vedrai che quando smetterà questa bufera, torneremo subito a casa e così la mamma non verrà a saperne nulla della nostra disavventura”.
Intanto fuori, il vento sibilava ed urlava ad intervalli sempre più regolari. Le folate di nevischio entravano attraverso tutti gli anfratti e i pertugi del vecchio castello. Anche i rami secchi degli alberi intorno si agitavano con forza, sfregando e sprigionando un lugubre fruscio che sembrava quasi un lamento. “Ho paura” mormorò sommessamente Teresina. “Paura di che cosa? – le chiese Paolino – delle bombe? Non sembra certo il fragore di una bomba questo rumore che si sente in lontananza. Forse sarà l’aereo del Pippo, quello che gira tutte le notti, ma qui sui Ciucioi non c’è nessun pericolo dato che siamo al buio e luci in giro non ce ne sono, quindi possiamo stare tranquilli”. “Senti Paolino – intervenne ancora Teresina – io ho sempre paura, sia di questo buio che di questo brutto posto misterioso dove siamo. Poi mi hanno anche raccontato che a mezzanotte esce fuori da questo castello abbandonato un fantasma che trascina le catene in giro per le serre e per tutta la costruzione”. “Sono solo sciocchezze – rispose subito Paolino alla sorella – inventate da qualche buontempone del paese”.
Proprio in quel momento il campanile della chiesa vicina al Pristòl iniziò a battere le ore, con suono lento e rimbombante. Erano in tutto ben dodici rintocchi… che non finivano mai. Subito dopo Paolino trattenne a stento un grande sbadiglio ed ebbe anche la curiosa sensazione di diventare più leggero, leggero come una piuma, abbandonata nel vuoto in un giorno di calma piatta. Gli parve di adagiarsi stanco morto su di una grande foglia che galleggiava sulle azzurre acque di un torrente che ben conosceva. Chissà perché credette di vedere laggiù, sul fondale del torrente, i suoi due fratelli che tranquillamente giocavano a carte nell’Avisio. Paolino stava sognando e con lui anche la Teresina e il Luigino che si erano addormentati insieme. Dal campanile di sotto era intanto ritornato il silenzio. La mezzanotte era già passata, circondata dalla neve che intanto cadeva copiosa.
Il vento stava scemando e se ne stava andando a riposare tranquillo anche lui quando sulla porticina alla destra del castello, chiusa da tantissimi anni, apparve uno strano essere irriconoscibile. Una figura allampanata che, dai riflessi della neve, si vedeva benissimo che indossava un grande mantellone nero e sulla testa aveva una sorta di cappello, come una vecchia tuba nobiliare trasandata, anch’essa nera. Stava per iniziare la sua solita passeggiata notturna davanti al vecchio portale, quello sotto il loggione principale… Ma ecco che da dietro uno spuntone di roccia apparve un altro fantasma. Questo era invece tutto bianco, proprio un vero fantasma come narrano le leggende.
Quando i due si trovarono faccia a faccia il signore in nero chiese subito senza mezzi termini all’altro “dove vai e chi diavolo sei, stai invadendo il mio habitat, come ti permetti?”. “Io sono sempre qui tutte le notti – rispose – sono il fantasma ufficiale di questo castello e nessuno si è mai lamentato della mi presenza, non faccio rumore e non disturbo nessuno. Dimmi tu piuttosto come mai sei qui, chi ti ha chiamato e come mai ha quel lugubre vestito nero addosso?”. “Io sono – rispose subito l’uomo dalla tuba e dal mantello nero – il vero e unico fantasma del costruttore di questo castello-giardino. Sono entrato in servizio per colpa di questa guerra ancora in corso, per proteggere la mia creazione ma anche per protesta per come l’hanno trascurata i privati che negli anni ne sono diventati i possessori”.
Il fantasma in nero si accalorava sempre più, continuando a spiegare al suo collega bianco come stavano veramente le cose all’interno di tutta la struttura, costruita e realizzata con tanti sacrifici e con il dispendio di tutte le sue sostanze!
“Non sono riuscito però ad ultimare il castello nella roccia – riprese ancora l’uomo in nero – avevo preferito i fiori esotici e i limoni, poi sono morto per colpa di una serra rimasta spalancata durante un temporale. Ero salito per chiudere tutto ma sono caduto insieme alla scala”. L’altro fantasma lo guardava sempre più incuriosito e ad un certo punto le disse francamente “finiscila con queste chiacchiere e lascia dormire i miei tre amici che si sono riparati qui durante la tempesta di neve, sono amici di questo posto e li vedo sempre anche quando vengono qui di giorno a giocare”.
L’uomo in nero, il costruttore-ideatore del castello lo assecondò, ma prima di ritirarsi in silenzio dette un’occhiata ai tre ragazzini, incartati com’erano nel grande pastrano. “Beati loro – aggiunse sommessamente – sono giovani e sicuramente arriveranno da grandi a vedere la mia creatura del castello-giardino, rimessa a nuovo e aperta per tutti i visitatori”. Il fantasma bianco annuì e aggiunse “forse ci sarò ancora in quelle notti future, quelle della rinascita completa di tutta questa struttura, chissà…”.
E’ mattina ormai, la neve aveva smesso di cadere e il vento era scomparso dietro alle rocce del Monte Paion. I tre fratellini si svegliarono quasi insieme e tutti all’unisono esclamarono in coro “abbiamo fatto un bel sogno, un bellissimo sogno, però ora dobbiamo prepararci per rientrare a casa della nonna. Chissà se la mamma è arrivata? Dobbiamo mettercela proprio tutta per arrivare in tempo, anche se la neve ha ostruito tutta la stradina verso il Pristòl… per fortuna, domani, sarà finalmente Natale”.
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