Lavis. Al centro di questa storia c’è una torre antica, immersa nel verde in cima al dosso che domina il paese di Lavis, costruita secoli fa per controllare il suo territorio e i suoi confini, ma ora del tutto cancellata, scomparsa, addirittura spazzata via dal vento inesorabile del tempo e dall’incidere della storia.
Chi visita il pianoro si accorgerà sicuramente che alcuni resti della vecchia torre si trovano ancora sul terreno e come tutt’intorno si vedano ancora le tracce del suo perimetro circolare, disgregato e abbandonato tra i rovi. Oltre una settantina d’anni fa la zona era la meta quasi giornaliera delle scorribande di bambini e ragazzi che si recavano in questa zona spinti anche dalle storie e dai racconti che genitori, nonni e bisnonni sfoderavano puntualmente a piene mani in ogni occasione propizia.
La storia è quella di Lionello e Ferruccio che, come tanti altri coetanei, passavano molte delle loro giornate libere proprio in cima al dosso, tra il verde del grande prato circondati dalle chiome degli alberi e dei castagni, numerosi da quelle parti. Come altri, i due erano appassionati della natura e di tutto quanto esisteva in quell’immenso habitat che sovrastava da secoli il paese. Per arrivarci bisognava percorrere i vicoli e le stradine del borgo nella sua parte più antica, i Pristòi appunto, che si dipanavano intorno a ben quattro punti strategici di accesso al dosso. Si arrivava così ai piedi del dosso e da un sentiero laterale si iniziava la salita, segnata dai resti di qualche muretto a secco con sassi intarsiati da rampicanti ed edera selvatica.
Dopo qualche minuto di buon passo, si arrivava alla sommità: un misto di prato con della bassa vegetazione informe e diverse piante, anche ad alto fusto, che – con diverse sfumature di verde aggrovigliato – svettavano rigogliose come bandiere al vento. Ma ciò che attirava maggiormente l’attenzione era sicuramente il luogo sul lato opposto del pianoro verso nord e le colline del circondario, dove si intravedevano ancora i resti di una antica torre.
La visita dei due amici era sempre rivolta quindi a questa. Un rudere ormai anche se con muri ancora in piedi per qualche metro di altezza. Essa però, come si narrava in casa da sempre, doveva essere stata ben più alta, una decina di metri e all’interno divisa su quattro piani, con l’ultimo a cielo aperto come un caratteristico poggiolo circondato da una sorta di merli disuguali, costruiti con sassi di porfido. Sulla sommità della torre si giungeva arrancando su rudimentali scalini in pietra incastonati nelle pareti circolari, una strana scala a chiocciola – insomma – che permetteva di salire in alto. Ma la curiosità maggiore era l’ingresso, del quale ben poco si intravedeva e al quale si arrivava attraverso una sorta di “grotta” dal cui piano, colmo di sassi e di sterpaglie d’ogni genere, si passava in una specie di misterioso ambiente e da questo, attraverso un piccolo pertugio tra due grosse pietre squadrate, alla fondamenta.
I due compagni di avventura studiarono per bene la situazione e le prime mosse da prendere per salire verso l’alto. Saltellando sul pavimento per distendere i nervi e per prepararsi all’impresa, ambedue ebbero la netta sensazione che al di sotto dei loro piedi ci fosse un vuoto; il suono provocato dai loro salti aveva infatti uno strano riverbero, quasi come un’eco che rimbalzava. La cosa incuriosì e i due, una sera nel tornare verso casa, presero la decisione: a tutti i costi bisognava verificare cosa si celava al di sotto dell’ingresso e cosa nascondevano le lastre di porfido del suo pavimento, sistemate alla meno peggio tra il materiale crollato e la terra battuta.
Mentre attraverso i rami degli alberi filtrava un tiepido sole primaverile, i due amici – armati di pala e piccone – iniziarono l’indagine. Spostarono le prime pietre, le zolle, la terra fino a giungere a un lastrone di porfido che, percosso , rimandava un suono a vuoto. Lentamente, con l’aiuto del piccone a far leva, riuscirono piano, piano a spostarlo e sotto apparve un’apertura, come fosse l’ingresso ad una grotta piombante verso il basso, ostruita però qua e là da grosse radici intrecciate. Ferruccio, il più coraggioso dei due, vi si infilò, provando a scendere all’interno di quella cavità. L’impresa apparve tutt’altro che facile. Le grosse radici sporgenti assicuravano però una buona presa e il ragazzo, dimenticando ogni prudenza, scese di alcuni passi con circospezione.
Poi, improvvisamente, un grido seguito da un sordo tonfo. Ferruccio era arrivato sul fondo, sano ma piuttosto agitato e impaurito. Da sopra il compagno lo chiamò subito“Ferruccio, ci sei? Mi senti? Come stai?”. “Sono caduto su della sterpaglia – disse lui – tutto a posto, solo un grande spavento”. Lionello, dopo aver tranquillizzato l’amico, scese di corsa fino al vicino Maso dei Castagnari, in cerca di aiuto. Fu subito di ritorno, seguito da nonno Richetto, agitatissimo e trafelato, con una grossa corda e una lanterna a petrolio, che subito calarono in quel buco legata alla corda. “Appoggia la lanterna da qualche parte – gridò Lionello a Ferruccio – e poi lega la corda intorno alla vita che proviamo a tirarti su”. Il ragazzo esegui prontamente, ma prima – approfittando della luce della lanterna volle dare un’occhiata tutt’intorno e vide che la grotta si addentrava nella roccia con una direzione che da sotto la torre andava verso il bosco. Non si vedeva proprio bene e così ogni velleità esplorativa di proseguire nella scoperta finì.
Ferruccio risalì e giunto in superficie “Peccato – disse – quanto sarebbe stato bello esplorare l’intero cunicolo, ma non ce la facevo proprio più a rimanere ancora laggiù in fondo”. “Per oggi basta… – aggiunse quindi Lionello – Riportiamo a casa gli attrezzi e vediamo di darci una ripulita ai vestiti, chissà cosa diranno i nostri familiari di questa scoperta che per fortuna si è conclusa felicemente”.
Dopo quell’esperienza avventurosa i due ragazzi divennero più amici di prima e di questo si accorsero tutti, specialmente i genitori e anche i nonni. Questi ultimi poi aprirono i loro ricordi e spiegarono che quelle grotte e quei cunicoli ritrovati sotto la torre altro non erano che i busi canopi, budelli ad altezza d’uomo scavati dagli antichi minatori alla ricerca di minerali e metalli nel sottosuolo. Forse la torre antica serviva loro da riferimento, come una faro per segnare e fissare il punto di arrivo e di partenza delle loro attività nel ventre del Dos Paion.
A distanza di parecchi anni, Ferruccio e Lionello hanno intanto oltrepassato le ottanta primavere, ma quando posano lo sguardo sul loro Dos Paion subito riemergono i ricordi di quando erano bambini, esploratori, amici felici e liberi sopra quel dosso dei sogni, a scoprirne i misteriosi segreti e fantasticare con tutte le avventure indimenticabili del bel tempo passato.
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