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La storia della rapina a Lavis, quando hanno sparato al Bruno Guardia

Le storie di paese di solito hanno una caratteristica: si tramandano di bocca in bocca e poi, piano piano, rischiano di svanire col tempo. Succede… se nessuno si dà il compito di scriverle e tramandarle ai posteri. Quella che vi stiamo per raccontare ha da poco superato i 40 anni di età. È ancora patrimonio comune, c’è chi era bambino allora e se la ricorda oggi, magari in maniera un po’ vaga e confondendo i ricordi.

Ma il rischio è che le nuove generazioni non sappiano nulla della rapina alla Cassa rurale di Lavis, quella finita con una sparatoria e un vigile urbano colpito da due proiettili. Ed è per questo che oggi ve la riportiamo, soffiando via un po’ di polvere dal libro del passato del nostro paese.

Siamo nei primissimi anni Ottanta. Lavis è un paese che sta crescendo tantissimo e sta vivendo il suo miracolo economico, con tutte le contraddizioni e le disuguaglianze. Forse è cresciuta fin troppo in fretta, come sostiene il sindaco Cornelio Moser. La zona industriale ha dato un certo innesto allo sviluppo urbanistico.

Sul finire degli anni Settanta, in viale Mazzini sono stati costruiti i palazzoni delle case Itea. Proprio in zona vive il protagonista principale di questa nostra storia: un vigile urbano originario di Rabbi. Lo chiamano “Bruno Guardia”, per la sua prestanza fisica e l’impegno che mette nel garantire la sicurezza a Lavis.

Non è sempre un compito facile. In quegli stessi anni era finito accoltellato da un giovane. A inizio 1982, la sua auto era stata data alle fiamme di notte, mentre era parcheggiata non lontano da casa. Ma può succedere anche di peggio a Lavis: ci possono essere banditi armati, che prendono d’assalto una banca.

La rapina di primavera


La Cassa rurale si trova ancora in via Degasperi, dove oggi ci sono le poste, nei pressi delle scuole elementari. Si traferirà in via Rosmini solo nel 1983, ma la storia che vi stiamo raccontando è ambientata un anno prima, nel 1982. Vista la sua posizione, qualcuno racconta di essere stato testimone di ogni cosa, guardando dalle finestre della propria classe.

Un’anteprima della storia si svolge nel maggio del 1982, il 12. «Due uomini armati di pistola – racconta il quotidiano L’Adige – facendosi strada con una grossa mazza con la quale hanno mandato in frantumi il vetro della porta d’ingresso, alle 15 circa, hanno raggiunto la cassa per impossessarsi di circa 80 milioni di lire in contanti, mentre gli impiegati erano intenti al lavoro pomeridiano». Il bottino in realtà sarà un poco inferiore, intorno ai 67 milioni.

Su un’auto rubata


I banditi sono fuggiti a bordo di una Golf, lungo via Garibaldi e poi via Orti – dove sta la casa di riposo – e costeggiando l’Avisio si sono buttati sulla nazionale, forse diretti verso la tangenziale o l’autostrada. L’auto che stavano usando era stata rubata un paio di giorni prima e sarà ritrovata a Roncafort. Secondo alcuni testimoni, i ladri avevano anche una seconda auto.

Nel pomeriggio la banca è chiusa ai clienti, ma dentro ci sono gli impiegati al lavoro. Un rapinatore, coperto con un passamontagna, distrugge la porta a vetri con una mazza (e così si ferisce, macchiando di sangue il vestito di un’impiegata che sarà spintonata). I rapinatori fanno irruzione urlando «Questa è una rapina». Silvano, il cassiere di appena 31 anni, viene costretto – con la minaccia di una pistola puntata al fianco – ad accompagnare i due rapinatori verso il caveau, dove avrebbero voluto aumentare il frutto della rapina. Ma alla fine desistono.

Una foto del fotografo Giorgio Rossi dal quotidiano l’Adige

Il privilegio scomparso


«La spregiudicata incursione – scrive ancora L’Adige – era stata portata a termine da gente che aveva attentamente studiato il piano in ogni minimo particolare, era a perfetta conoscenza delle consuetudini del personale, della piante dello stabile, della disposizione degli uffici e della collocazione del denaro fuori cassa. Il tutto è durato pochi attimi, quel tanto che ha consentito di impossessarsi della più che discreta somma».

«Le aspirazioni degli sconosciuti erano comunque diverse dal momento che intendevano attentare anche al caveau. Hanno desistito solo su pressione degli impiegati quando già avevano percorso la rampa di scale che portava negli scantinati».

Il giornalista Carlo Guardini, sull’Alto Adige, scrive: «La Cassa rurale era stato l’unico istituto di credito di Lavis a non aver subìto rapine: e questo “privilegio”, se così si può definire, è stato infranto letteralmente dal colpo di mazza calato dai banditi». Ma non sarà l’ultima volta.

Una mattina da film


Qualche mese dopo, nella mattina del 4 novembre 1982, c’è infatti un altro tentativo di rapina alla Cassa rurale di Lavis. Ma, questa volta, finisce con uno scontro a fuoco e la realtà della cronaca che eguaglia la fantasia del cinema.

Mancano pochi minuti dall’apertura e le scuole sono piene di bambini. All’esterno della banca, durante la rapina, sta passando per pura casualità un’auto con tre vigili urbani a bordo: uno lo abbiamo già conosciuto, è “Bruno Guardia”, il suo vero nome è Bruno Girardi. Ci sono poi Remo Cova, che è appena stato assunto, e Corrado Dalfovo. Nel 1982 hanno rispettivamente 47, 38 e 27 anni e stanno andando a Trento per fare una nuova divisa a Cova, al suo primo giorno di lavoro a Lavis.

Dentro la banca c’è un solo rapinatore, “solitario” e un poco avventato: indossa un giubbotto di pelle e dei blue jeans, con una sciarpa rossa e gli occhiali neri a coprire il volto. Ha 24 anni e nel veronese, suo luogo di provenienza, lo conoscono come il “biondino” per il colore dei suoi capelli ricci.

Una donna, appena entrata in banca, riesce a fuggire verso l’esterno e urla: «C’è una rapina!». In quel momento ci sono diverse persone nei dintorni: «Donne che escono dal vicino supermercato del Sait e uomini, alcuni dei quali intenti a scambiarsi i primi commenti della giornata», come scrive L’Adige. Fra le donne che stanno uscendo dal supermercato c’è anche la moglie di Bruno Guardia.

La sparatoria


I vigili si accorgono di quanto sta accadendo, scendono di fretta dalla loro Fiat 127, estraggono la pistola, ma anche il rapinatore inizia a sparare dalla soglia. Mentre Cova e Dalfovo stanno protetti e fanno da copertura, rifugiandosi dietro a un’auto e un furgone con le pallottole che sibilano sopra di loro, Girardi tenta di bloccare il malvivente, dandogli una ginocchiata al basso ventre.

Sembra avere la meglio, ma viene distratto dalla voce di uno dei vigili dietro di lui, che urla «te copooo» (ti uccido) e gli fa temere che ci sia un complice. Il “biondino”, che ha la sua pistola ormai inceppata, riesce a rubare quella del vigile. Gli spara due proiettili che gli trapassano il costato.

Al Bruno “Guardia”, con il suo fisico possente e le grandi forze, riesce un’ultima reazione: sbatte la testa del rapinatore contro una ringhiera, consentendo l’intervento di altre persone lì presenti, fino all’arrivo dei Carabinieri (che fermano un tentativo di linciaggio). Soccorso dal medico locale Lorenzo Lorenzoni, Girardi – che fortunatamente non è stato colpito agli organi vitali – viene ricoverato al Santa Chiara con una prognosi di circa un mese. Due proiettili gli avevano attraversato i pettorali e i dorsali.

Il miracolo


«Il Girardi, guardia comunale di Lavis, di corporatura robusta per fermare il bandito, più minuto, aveva rischiato oltre ogni misura», scrive l’Adige. Da lì a qualche tempo, il Consiglio comunale deciderà di destinargli una medaglia al valore civile. Per l’occasione, la direzione della Cassa rurale invierà in municipio una lettera: «Girardi affrontava il malvivente senza esitazione, interrompendo finalmente la cronaca di rapine imbaldanzite dall’impunità».

Quando il pubblico ministero chiederà la condanna del rapinatore, userà queste parole: «Ha sparato per abbattere coloro che gli erano di ostacolo, prevedendo quindi e accettando la loro possibile morte». «Solo l’inceppamento della pistola ha impedito la continuazione della sua azione dillettuosa».

Bruno Guardia è morto qualche settimana fa, quarantun’anni dopo quella rapina, il 9 giugno del 2023. Aveva 86 anni. Ha vissuto una vita piena, con sempre un notevole attaccamento per il bene del suo paese di adozione. Ma, nella sua storia, c’è sempre stato un prima e un dopo: il miracolo di quella mattina di novembre, quando è sopravvissuto a una sparatoria, è testimoniato dalla presenza di un ex voto al santuario di Pinè.

Daniele Erler

Giornalista professionista, laureato in storia, ideatore e direttore de ilMulo.it. Ha lavorato a Roma nella redazione del quotidiano Domani, di cui è stato caposervizio. Ha scritto per il Trentino, il Fatto Quotidiano e laStampa.it. È stato direttore dell'Associazione Culturale Lavisana. (Scrivi una mail)

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