I disegni di un libro appena pubblicato permette di riscoprire il paesaggio ormai nascosto dal tempo che passa. E il ricordo di un’esplosione che 97 anni fa uccise sette operai
MEZZOLOMBARDO. La recente pubblicazione a cura dell’Associazione Culturale Tangram di Merano del volume “Il Codice Brandis. I castelli della Val d’Adige, della Val di Non e della Val di Sole” nel quale vengono presentati 35 disegni delle vedute di castelli e rocche disseminati lungo la Val d’Adige, la Val di Non e la Val di Sole, ripropone l’interessante schizzo della fortificazione della Rocchetta, posta all’ingresso della Val di Non.
L’anonimo autore ha tracciato un bozzetto che riporta com’era la situazione fattuale all’inizio del XVII secolo, di questo importante passaggio che mette in comunicazione la valle dell’Adige con la Val di Non. Vi si vedono i ruderi della Torre di Visione, il sottostante castello, più in basso l’edificio della Dogana (Zoll) e davanti l’ardito ponte che collega i due territori a scavalco dell’impetuoso corso del Noce. Di quanto rappresentato nello schizzo oggi non è rimasto praticamente più nulla.
L’esplosione di fine anno
Non è pertanto inutile ripercorrere la storia di questo passo vallivo di difficile accesso alla valle nonesa, che si eleva a circa 260 metri e che deve la sua fama, non tanto alla – contenuta • altezza, bensì alla selvaggia conformazione della forra in cui scorre il Noce che, all’odierno turista o occasionale automobilista, risulta del tutto invisibile. Ma un’altra circostanza per parlare del valico è data dalla ricorrenza dei 97anni, che cade proprio oggi, dell’esplosione avvenuta il 27 dicembre 1922, nel luogo che all’epoca aveva trasformato il vecchio forte austro-ungarico in una polveriera di deposito delle bombe a mano dell’ex forte.
A cura di una ditta di Bassano gli ordigni venivano scaricati della polvere esplosiva, ma a causa di cause sconosciute si verificò uno scoppio che fece otto vittime, sette giovani operai veneti originari di Seren del Grappa e un soldato. A ricordo della disgrazia il Prefetto di Mezzolombardo Guadagnini fece erigere un cippo commemorativo dove vennero sepolti i poveri resti delle vittime, cippo tuttora visibile nel cimitero di Mezzolombardo. Un doloroso fatto di sangue che ebbe risalto a livello nazionale, tanto che la “Tribuna Illustrata” gli dedicò la copertina. L’episodio è tanto più desolante per il periodo dell’anno in cui avvenne e che ci racconta della fatica dei nostri connazionali costretti a lavori pericolosi anche nel periodo di feste di fine anno.
Il castello della Visione
Certo la presenza delle fortificazioni a guardia di questa porta fra i due territori (che dal punto di vista strettamente amministrativo è in Comune di Ton e quindi in Val di Non), è quella che nella memoria collettiva ha maggior vigore. Partendo proprio dal nome “Rocchetta” quale diminutivo di “Rocca”, nome col quale si identifica la torre che nel 1333, Enrico Conte del Tirolo, e figlio di Mainardo II flagello dei Principi vescovi di Trento, ordinò di costruire a Volcmaro di Burgstall, il capostipite della casata degli Spaur.
Il luogo scelto era il dosso fra il Ponte Alpino e il Castello della Visione. Quest’ultimo, del quale rimangono al giorno d’oggi solo poche dirupate rovine sull’omonimo colle, era stato edificato circa un secolo prima nel 1199 da Alfredino e Manfredino di Tono come feudo concesso dal Principe Vescovo di Trento Corrado.
Una gigantesca cascata
Ed è questo il paesaggio che si vede nell’immagine del Codice Brandis che rende anche chiaramente l’idea dell’impervia strettoia sottostante al dosso. La tortuosa gola, oggi interamente coperta dal manto stradale della statale 43, fino a fine Ottocento, come scrive lo storico di Mezzolombardo Giusto de Vigili:
E aggiunge:
da tale diga precipitando, le acque del fiume dovevano formare una strepitosa, gigantesca cascata che colla sua azione corroditrice durata centinaia di secoli, fece scomparire alla fine la diga stessa. In questo stretto e strategico varco, quanto volte non avrà tuonato il feroce grido di guerra».Giusto de Vigili
Un paesaggio inospitale
Descrizione accurata e azzeccata di un passaggio alpino che possiamo solo immaginare quanto ancor più inospitale e pericoloso dovesse apparire nei tempi antichi. Pensiamo ad esempio a Orazio poeta latino che nella IV Ode, agiografica celebrazione delle vittorie del generale romano Druso, figlio adottivo di Ottaviano Augusto, riferendosi certo alle Alpi in generale, così dipinge nel 15 a.C. circa, i passi alpini all’epoca delle conquiste alpine di Roma: tremendae arces alpibus impositae.
Oppure a quanto scrive nella sua lettera verso il 397, il vescovo di Trento Vigilio rivolto al suo omologo di Costantinopoli San Grisostomo, relazionando sul martirio avvenuto nella valle di Sisinio, Martirio ed Alessandro: «tam perfidia natura angustis faucibus interclusus».
Arrivano i Franchi
È probabile che i Franchi, penetrati nel 577 dal Tonale per espugnare il territorio in mano ai Longobardi del Ducato di Trento, siano passati di qui e prima della battaglia in campo Rotaliano, contro il conte Ragilone di Lagare che ritornava dal castello di Anagnis (dai più identificato con l’attuale Castellaccio di Portolo), abbiano distrutto il forte romano che qui esisteva.
E qualche secolo dopo in prossimità del medievale ponte di San Cristoforo (il santo venerato come il patrono di quelli che hanno a che fare con il trasporto, come barcaioli, pellegrini, pendolari, viandanti, viaggiatori) venne eretto un ospizio con una chiesuola nominato in un documento vescovile del 1309.
Una storia di roccaforti
La fortezza venne nuovamente rialzata nel XIV secolo e da qual momento in poi la storia del passo è una storia di roccaforti che si susseguono: dalla torre al castello che passa di mano fra le famiglie dei nobili nonesi dai Tono, agli Sporo, ai Belasi e certo sta ad indicare l’importanza strategica e militare assunta dal varco nel corso dei secoli.
Nel corso della guerra rustica del 1525, quando il castello era in mano ai Cles, venne assalito e danneggiato dai rivoltosi nonesi, solandri e rotaliani. Durante il periodo del Regno italo-napoleonico, il castello caduto in rovina e divenuto covo di briganti e malfattori venne fatto abbattere nel 1811 dal Prefetto di Cles Francesco Filos, salvando solo la torre antica e il posto del dazio; venne poi ricostruito fra il 1860 e il 1864 dall’impero austriaco come forte di sbarramento, munito di cannoni rivolti verso il Tonale e verso Mezzolombardo.
Un ricordo del passato
E alla fine, dopo lo scoppio, la demolizione per allargare la strada che attualmente porta a Ton: ora rimangono solo i resti dello spiazzo superiore del torrione che cade a piombo sulla sottostante strada per la val di Non.
L’antichissima storia dell’orrido varco a confine fra i territori finitimi è solo una memoria da cercare in vecchie foto e nello schizzo del Codice Brandis. (b.k.)
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